Il Sogno, il Mito e il Cinema: scenari immaginali e mutazioni, Giornale Storico del CSPL, n.34.

Il Sogno, il Mito e il Cinema: scenari immaginali e mutazioni, Giornale Storico del CSPL, n.34.

 

 

 

Marialuisa Vallino, articolo: Il Sogno, il Mito e il Cinema: scenari immaginali e mutazioni, pag. 82 del Giornale Storico del CSPL, fondato da Aldo Carotenuto, n. 34-Mutazioni-

ABSTRACT

Mutazióne è un termine con cui si designa il mutare, il mutarsi, l’essere mutato ed implica il cambiamento, la trasformazione. La metamorfosi riguarda il mutare forma, aspetto connesso alla figura mitologica di Proteo, le cui caratteristiche sono: svelare la verità e mutare aspetto. Il sognatore e il regista condividono con Proteo la capacità di ricreare, di aprire la realtà immaginale alla sfida del mutamento. L’immagine non si identifica con un singolo contenuto, ma si ritrova in ogni altro contenuto, così come l’attività immaginativa non è una fuga dalla realtà, ma un’esperienza vivificante che può sia ‘informare’, sia ‘trasformare’ la coscienza. La nascita contemporanea del Cinema e della Psicoanalisi, alla fine del XIX secolo, ha contribuito a determinare, sin dal principio, un dialogo incessante tra le due ‘discipline’ e il presente articolo ne sottolinea il legame. I riferimenti agli aspetti inconsci sono presenti nelle opere cinematografiche in modo più o meno esplicito, basti pensare al tema del “Doppio” e alle sue modalità rappresentative. Il cinema, inoltre, ha spesso usato il sogno come espediente ‘esplicativo’ o vero punto di partenza per la trama. Immagini e rappresentazioni sono concetti interrelati e connessi al divenire, al perenne fluire della psiche. Accanto al carattere ‘onirico’ della visione filmica, è possibile rintracciare il carattere ‘filmico’ della visione onirica. I sogni presentano numerose corrispondenze con le immagini dei film. Il mio contributo illustra l’attività creativa connessa alla dimensione immaginale che nel sogno come nel cinema si sviluppa a partire da quella ‘chiamata’ all’avventura che caratterizza anche l’eroe del mito. Molte storie cinematografiche possono essere analizzate ricorrendo al paradigma del monomito individuato da Campbell che si inserisce come trait d’union tra mitologia e cinema. La potenza delle immagini si accentua nella misura in cui vengono in luce determinate situazioni archetipiche che al di là del tempo e dello spazio mettono in scena la complessità della vita e i suoi sviluppi. Per certi versi, il cinema è in grado di creare veri e propri modelli di eroi e antieroi, quali ‘mutazioni’ da motivi archetipici.  Ho dedicato particolare attenzione al cinema noir, la cui cifra distintiva rappresenta l’altrove, non di rado connotato in termini orrorifici; il dubbio e la paura connessi all’Altro, gli aspetti inquietanti che si celano al di là del visibile, l’angoscia del limite e gli aspetti oscuri che ciascuno reca dentro di sé sono motivi che attengono alla sfera individuale, ma anche collettiva.

Attraversare l’invisibile: l’Anoressia come eclissi del Sé, Giornale Storico del CSPL, n.33.

Attraversare l’invisibile: l’Anoressia come eclissi del Sé, Giornale Storico del CSPL, n.33.

Marialuisa Vallino, articolo: Attraversare l’invisibile: l’Anoressia come eclissi del Sé, pag. 88 del Giornale Storico del CSPL, fondato da Aldo Carotenuto, n.33-Attraversare-

 

ABSTRACT

L’articolo esamina le caratteristiche dell’Anoressia, un disturbo che vede corpo e psiche legati da una potenza disgregante e mortifera. Il corpo, sottratto al dominio delle pulsioni, diviene il simulacro di una illusoria perfezione e l’individualità scompare dietro un’oscura sofferenza, eclissando il Sé. Dopo una disamina delle caratteristiche cliniche, vengono illustrati i possibili significati sottesi all’espressione patologica, con attenzione allo sfondo mitico che comprende i ‘misteri’, preludio alla rinascita e al disvelamento delle potenzialità creative insite nella psiche. Particolare importanza riveste il concetto di ‘limite’, insito nella patologia anoressica, per i suoi risvolti in termini identitari e relazionali. Alcune figure mitologiche, quali Kore/Persefone, connessa a Demetra, e la ninfa Eco, connessa a Narciso, illustrano alcune dinamiche psichiche. L’attraversamento del confine, l’avventura che dal mondo supero si sposta a quello infero è un percorso ineludibile, connesso ad un’esigenza trasformativa. In accordo con la Psicologia analitica di Jung e la Psicologia archetipica di Hillman, la struttura immaginale della psiche è analoga a quella del mito e spesso compare il tema della catàbasi; la discesa agli inferi è una discesa nell’inconscio e l’individuo deve confrontarsi con le immagini in esso contenute. Nell’oscurità della patologia c’è anche la possibilità di uno ‘svelamento’ del Sé, l’apertura al divenire creativo della vita, come nel caso della poetessa Louise Glück, Nobel per la Letteratura 2020 ed ex ragazza anoressica.

 

 

Attraversare l’invisibile: l’Anoressia come eclissi del Sé, Giornale Storico del CSPL, n. 33.

Attraversare l’invisibile: l’Anoressia come eclissi del Sé, Giornale Storico del CSPL, n. 33.

Marialuisa Vallino, articolo: Attraversare l’invisibile: l’Anoressia come eclissi del Sé, pag. 88 del Giornale Storico del CSPL, fondato da Aldo Carotenuto, n.33-Attraversare-

ABSTRACT
L’articolo esamina le caratteristiche dell’Anoressia, un disturbo che vede corpo e psiche legati da una potenza disgregante e mortifera. Il corpo, sottratto al dominio delle pulsioni, diviene il simulacro di una illusoria perfezione e l’individualità scompare dietro un’oscura sofferenza, eclissando il Sé. Dopo una disamina delle caratteristiche cliniche, vengono illustrati i possibili significati sottesi all’espressione patologica, con attenzione allo sfondo mitico che comprende i ‘misteri’, preludio alla rinascita e al disvelamento delle potenzialità creative insite nella psiche. Particolare importanza riveste il concetto di ‘limite’, insito nella patologia anoressica, per i suoi risvolti in termini identitari e relazionali. Alcune figure mitologiche, quali Kore/Persefone, connessa a Demetra, e la ninfa Eco, connessa a Narciso, illustrano alcune dinamiche psichiche. L’attraversamento del confine, l’avventura che dal mondo supero si sposta a quello infero è un percorso ineludibile, connesso ad un’esigenza trasformativa. In accordo con la Psicologia analitica di Jung e la Psicologia archetipica di Hillman, la struttura immaginale della psiche è analoga a quella del mito e spesso compare il tema della catàbasi; la discesa agli inferi è una discesa nell’inconscio e l’individuo deve confrontarsi con le immagini in esso contenute. Nell’oscurità della patologia c’è anche la possibilità di uno ‘svelamento’ del Sé, l’apertura al divenire creativo della vita, come nel caso della poetessa Louise Glück, Nobel per la Letteratura 2020 ed ex ragazza anoressica.

 

Counseling interdisciplinare alle persone e alla famiglia

Counseling interdisciplinare alle persone e alla famiglia

      Servizi:

  1. Consulenza legale e psicologica nella crisi di coppia, con interventi mirati ad identificare e gestire, in modo funzionale, le difficoltà riguardanti il singolo o il nucleo familiare;
  2. Interventi a sostegno della genitorialità;
  3. Percorsi di rielaborazione emotiva ed assistenza legale alle vittime di violenza;
  4. Consulenza ai componenti delle famiglie ricostituite e/o alla famiglia allargata, in relazione a difficoltà affettive ed educative;
  5. Assistenza giudiziale e stragiudiziale all’individuo e alla famiglia: separazione, divorzio, filiazione naturale e legittima, adozione, disconoscimento e riconoscimento di paternità, tutela, curatela ed amministrazione di sostegno per situazioni d’incapacità naturale o permanente (interdizione, inabilitazione), istanze al Giudice Tutelare, successioni;
  6. Supporto civile e penale per i reati di maltrattamento, atti sessuali e persecutori (stalking), minaccia, lesioni, omicidio.

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L’audizione del minore

L’audizione del minore

L’audizione del minore

Relazione di Marialuisa Vallino, presentata in occasione del Convegno: “Conflitto coniugale e condivisione genitoriale: apparenza di una contraddizione” svoltosi a Bari il 23 Marzo 2007, e nell’ambito del Corso E.C.M. per Avvocati, svoltosi presso il Tribunale di Napoli il 14 Aprile 2008. A fronte dell’evoluzione di alcuni concetti diagnostici ed operativi sono state apportate delle modifiche.

Il tema che mi è stato assegnato è sicuramente complesso ma interessante, perché a fronte di un testo normativo composto unicamente da cinque articoli, passati al vaglio del Senato il 24 gennaio 2006, il legislatore ha rivoluzionato il diritto di famiglia, suscitando opinioni fortemente contrastanti e dando vita ad interrogativi ai quali è necessario dare risposta. La condivisione genitoriale, infatti, vede gli operatori del settore impegnati nell’affrontare problematiche che, pur affioranti nel mondo del diritto, coinvolgono principi etici, sociali e culturali riguardo la posizione del minore all’interno della famiglia e della società in cui vive. Nella presente relazione vengono affrontate alcune tematiche che definiscono la “grandezza e i limiti” della c.d. bigenitorialità, delineando i fattori emotivi che legano la conflittualità familiare al contesto giudiziario. Lungo e difficile è stato il percorso di emancipazione del minore da oggetto di protezione all’interno della famiglia a soggetto di diritti; altrettanto arduo è stato il cammino, intrapreso da alcuni psicanalisti, soprattutto di matrice junghiana, che ha portato a rivalutare il ruolo del padre. Nel 2000 sono stati affidati esclusivamente alla madre l’86,7% dei minorenni a seguito di una separazione e l’86% a seguito di un divorzio. L’innovazione maggiormente evidente della Legge 54/2006 è quella di aver richiamato l’opinione pubblica al rispetto di un’eguaglianza sostanziale tra i genitori, e ciò anche in quel contesto “incerto” nel quale la conflittualità e le tensioni agiscono come spinte divergenti, pregiudicando la posizione dei minori che ne sono coinvolti. Il messaggio sotteso è che soltanto il rispetto di una totale par condicio nei confronti del figlio possa salvaguardare il diritto del minore di mantenere, nel caso di separazione/divorzio tra i genitori, il miglior rapporto possibile con ciascuno di essi (oltre che con i parenti di entrambi i rami). Qualcuno osserverà che si tratta di un enunciato del tutto ovvio; a mio parere, invece, si tratta di un principio che è stato giusto ribadire proprio perché troppe volte disatteso dalle parti in conflitto. Inoltre, il nuovo scenario si dimostra non soltanto rispondente all’evoluzione del nostro tessuto sociale, ma si allinea altresì con la normativa europea che già da tempo aveva indicato che l’autorità parentale debba continuare ad essere esercitata dal padre e dalla madre anche dopo la separazione e che ciascuno dei genitori debba assumere l’impegno di coltivare le relazioni personali del minore con l’altro genitore anche in separazione. Con riferimento specifico all’affido condiviso, possiamo quindi dire che i genitori vengono richiamati al loro compito di continuare ad essere, malgrado la fine della loro convivenza, “genitori insieme”. Come e cosa fare perché ciò accada? Il compito spetta ancora una volta al Giudice che dovrà valutare la situazione, allo scopo di emanare i provvedimenti che siano maggiormente rispondenti all’interesse del minore, fermo restando, tuttavia, che l’affidamento “condiviso” deve ormai ritenersi la soluzione prescelta dal legislatore come regola generale, e dunque prioritaria rispetto all’affidamento monogenitoriale. Non solo, ma come abbiamo avuto occasione di sperimentare nei Tribunali, il genitore che si oppone all’affidamento condiviso deve fornire elementi validi con l’esito sicuramente di essere sottoposto unitamente al coniuge e al figlio ad una consulenza tecnica d’ufficio. La concezione implicita della legge offre una “visione ottimistica” della separazione, di genitori in grado di prendere decisioni razionali, soprattutto nei casi in cui la ferita del legame coniugale è ancora aperta e il grado di conflittualità è ancora alto. È un po’ illusorio pensare che diventi all’improvviso capace di farlo chi non ha saputo decidere prima della separazione. I figli necessitano non solo di cure materiali, (anche se questo è il punto da cui scaturiscono le più potenti rivendicazioni), ma di pilastri identitari solidi e autentici. Non ha molto senso favorire nei figli un rapporto “equilibrato e continuativo” con entrambi i genitori, se quei genitori non sono prima in grado di testimoniare a se stessi il proprio equilibrio e la propria autenticità. Appare carente, infine, il ricorso alla mediazione familiare, se non si chiariscono con esattezza le modalità della sua attuazione. L’affido condiviso può funzionare solo se scelto e voluto da entrambi i genitori. Per evitare al minore un trauma è importante che durante la separazione i coniugi riescano a differenziare i problemi legati alla conflittualità della coppia da quelli relativi al proprio ruolo di genitori responsabili. Soprattutto è da evitare di mettere “in cattiva luce” l’altro coniuge agli occhi dei figli che hanno il diritto di mantenere un legame valido con entrambi i genitori. L’importante è che il divorzio e la separazione non coincidano mai con la fine dell’impegno parentale, perché si rimane comunque ancora genitori dei figli che sono stati generati insieme e, per dirla con Anna Oliverio Ferraris, “dai figli non si divorzia”. L’esperienza clinica dimostra che le coppie conflittuali rischiano di smarrirsi in un labirinto di odio e rivendicazioni per decine di anni se non per tutta la vita. La tanto vagheggiata conquista dell’indipendenza, la liberazione dall’altro, si connotano spesso nei termini di una sotterranea, quanto inconsapevole pretesa di liberarsi dei propri disagi psichici. Tale pretesa assume sovente le forme di un meccanismo disfunzionale, una “gabbia” affettiva e relazionale in cui gli ex coniugi rimangono prigionieri e che impedisce loro di ritrovare l’apertura psicologica per mentalizzare il passato e il presente, conferendo senso alla fine del matrimonio. La mancata elaborazione del “lutto” conseguente alla fine di un legame affettivo può esitare in quello che viene definito un abbraccio mortale (Main T., 1966) che impedisce il ripristino naturale delle condizioni di fiducia ed entusiasmo necessarie per prospettare una vita sentimentale futura. Una volta distrutta la fusionalità dell’eros, i coniugi restano uniti, paradossalmente, nella fusionalità dell’odio. Assurdamente, l’intervento della giustizia può essere utilizzato dagli ex coniugi per mettere in atto, in forma legalizzata, una serie di violenze e ritorsioni reciproche, vanificando quindi l’intendimento risanante, non solo della legge sull’affidamento condiviso, ma anche delle altre leggi finalizzate alla limitazione delle violenze familiari. A tale proposito, risulta particolarmente utile ricordare i cosiddetti “abusi emotivi”, subiti dai minori, e che secondo alcuni studiosi si compendiano in alcune Sindromi da separazione genitoriale. Nel 1995, il dott. Ira Daniel Turkat descriveva la ‘Malicious Mother Syndrome’; la “Sindrome della madre malevola”, secondo la sua teorizzazione, si riscontrerebbe in alcune madri affidatarie e consisterebbe in un’anomalia del comportamento comprendente: la manipolazione psicologica dei figli utilizzati come arma contro il padre; la vessazione del partner attraverso accuse gravi e infondate, come quelle di presunte violenze a carattere sessuale; la disponibilità ad andare contro la legge o sfruttarne ogni piega pur di danneggiare il proprio ex. L’alterazione della condotta può comprendere veri e propri gesti criminali, oppure può trasformarsi in un eccesso di azioni legali con cui impedire all’altro genitore l’accesso ai figli. L’uso strumentale dei figli, da parte dei genitori, è, in molti casi, un’evidenza concreta, e non necessariamente connessa al genere. Tuttavia, occorre una prudente valutazione, in caso di sospetta violenza, perchè la sua sottostima o minimizzazione può comportare rischi di vittimizzazione secondaria e l’uso inappropriato di costrutti scientifici.
Nel 1985, Richard Gardner, psichiatra infantile e forense, membro del Dipartimento di Psichiatria Infantile della Columbia University di New York, coniò il termine “Parental Alienation Syndrome” (PAS) – tradotto in italiano da alcuni autori (Buzzi, 1997; Gulotta, 1998) col termine “Sindrome di Alienazione Genitoriale” – per designare il disturbo psicopatologico dei soggetti in età evolutiva, frequentemente in età compresa tra i 7 e i 14/15 anni, che costituirebbe la “risposta distintiva” del sistema familiare sottoposto al trauma della separazione. Secondo alcuni autori tale risposta sarebbe addirittura una conseguenza paradossale del contesto giudiziario nel trattare la conflittualità familiare, tanto da definire la PAS una patologia iurigena (Salluzzo, 2004).
La PAS, secondo la sua teorizzazione, sarebbe connessa a due fattori concomitanti. Il primo è la “programmazione” o “indottrinamento” di un genitore – che è afflitto da odio patologico – ai danni dell’altro, comportamento definito come “alienante”. Il secondo fattore, che costituisce la principale manifestazione della PAS, è l’allineamento col genitore più amato (il genitore programmante che fa il cosiddetto “lavaggio del cervello” o che induce la PAS) da parte dei figli, i quali si dimostrano personalmente coinvolti in una campagna di denigrazione – che non ha giustificazione né è sostenuta da elementi realistici – nei confronti dell’altro genitore, che viene “odiato” (il genitore alienato, denigrato, la vittima, o il bersaglio). La finalità è quella di escluderlo dalla loro vita. Naturalmente, è fondamentale il ruolo svolto anche da tutti coloro, familiari e non, che si schierano dalla parte del genitore alienante. Il genitore alienante (Gardner, 2002) invece di contestare ai figli l’assurdità delle loro affermazioni, ne “condivide” i sentimenti e ne accetta le ripetute esibizioni di maleducazione e diffamazione. Ne risulta un atteggiamento adultomorfico dei figli, che li fa sentire come se si fossero rapidamente elevati a rango di valorosi adulti. La PAS, rilevata fin dagli anni ottanta nella realtà statunitense, è stata individuata come disturbo dell’età evolutiva, ma oggi viene messa in discussione dalla comunità scientifica e dalla Suprema Corte di Cassazione. E’ opportuno occuparsi della c.d. alienazione genitoriale per 2 ragioni: la prima è che la sua evidenza si colloca in maniera privilegiata proprio nella fascia d’età per la quale è previsto l’ascolto del minore, e la seconda è che essa si situa all’interno di un altro grosso problema, definito “acting out giudiziario”, vale a dire la più o meno consapevole tendenza dei genitori ad utilizzare il sistema giudiziario in modo perverso, come palcoscenico dove rappresentare il loro disagio, nella illusoria speranza di una riparazione delle proprie sofferenze e ferite narcisistiche. In riferimento alla teorizzazione della PAS, non si tratta di una patologia da indagare clinicamente, ma di una serie di condotte rilevanti per emarginare e neutralizzare l’altra figura genitoriale. La locuzione “alienazione parentale” non è esplicitamente riportata nel DSM-5, tuttavia nel manuale si fa riferimento ad “atti non accidentali verbali o simbolici di un genitore o caregiver che causano, o hanno la ragionevole probabilità di causare, un significativo danno psicologico al bambino”. Credo che la complessità del fenomeno “danno psicologico” debba essere inquadrata come grave fattore di rischio evolutivo per il minore, a prescindere dal riconoscimento o meno di una sindrome specifica. Per non cadere in trappole terminologiche che rimandano a precise “sindromi”, forse sarebbe più opportuno limitare il campo di osservazione a quei comportamenti di “influenzamento”, non necessariamente “volontari” suscettibili di incidere sul rapporto di un figlio con le figure genitoriali. Va comunque precisato che i bambini hanno una loro percezione delle dinamiche intrafamiliari non sempre e necessariamente soggetta ad intrusioni/condizionamenti. Ciò vale, in particolare, nei casi di violenza assistita, laddove la ricerca di maggior vicinanza con il genitore maltrattato è una reazione attesa, nonchè dettata dal bisogno di salvaguardare/proteggere la figura genitoriale percepita come più debole. Fatta questa premessa, che deve indurre necessariamente gli operatori a differenziare i termini violenza e conflitto, l’esperienza peritale insegna che un disagio di coppia, non affrontato in modo opportuno, può essere riversato all’esterno, sulla prole: un conflitto di coppia dovrebbe ricevere rielaborazione nelle sedi opportune, anche al fine di limitare manovre di triangolazione. Che lo si voglia riconoscere o no il peso della conflittualità ricade inesorabilmente anche sui figli e questo è particolarmente vero se questi ultimi diventano oggetto di una transazione, più che destinatari di un’affettività sana e rispondente alle loro reali necessità. I parenti e gli amici, in questi casi, possono diventare facilmente istigatori del conflitto, e solo in casi rari, promotori di attività dialogiche o autoriflessive. Sembra sia estremamente difficile, nei casi di conflittualità familiare, rimanere neutrali ed evitare il peggio, anche per i professionisti e per coloro che svolgono ruoli istituzionali. Molti corrono il rischio di farsi suggestionare, schierandosi a favore dell’una o dell’altra “fazione”. Gli avvocati lavorano in un ambito tipicamente basato sul conflitto, e pertanto inadatto a risolvere le difficoltà delle famiglie in crisi (Waldron, Joanis, 1996). Nei contesti separativi, non sempre i difensori riescono a riconoscere la distorsione delle dichiarazioni dei loro clienti, e possono a volte ‘aderire’ inconsciamente ai loro atteggiamenti, finendo anche per negare l’evidenza di comportamenti “critici”.
Naturalmente, il mandato dell’avvocato non è quello di evidenziare una realtà psicologica, bensì quello di delineare una verità processuale tale da far prevalere, all’interno della contesa giudiziaria, gli interessi del proprio assistito.
In conseguenza di ciò, le versioni di parte hanno spesso un tasso di distorsione così elevato, che alcuni autori parlano di “fattoidi” (de Cataldo, 1997) per designare quanto riferito da chi è sottoposto a interrogatori o perizie in ambito giudiziale. Occorre tenere bene a mente che ciascuno cerca una strategia per sopravvivere, e quello che fa è in relazione a questa strategia, di conseguenza è opportuno operare una distinzione tra sè e gli altri, delineando i confini interpersonali. Tanto vale anche per i Consulenti. Non dobbiamo dimenticare che nell’ascoltare e registrare determinati eventi si tende troppo spesso a lasciarsi condizionare, ad allearsi con quegli aspetti dell’interlocutore che toccano più da vicino i propri vissuti. Non è un caso che molte professioni derivino proprio dal bisogno di accostarsi a una serie di problematiche personali, vivendole attraverso i propri assistiti, pazienti, nel tentativo di superarle (Carotenuto). Un’oggettività è resa possibile solo dalla precisa delimitazione di un io e di un tu e dal rispetto e riconoscimento dell’identità quanto dell’alterità. Fatte queste premesse, entriamo nel vivo dell’audizione del minore, intesa nella duplice forma di ascolto diretto da parte del giudice e indiretto, eseguito da un CTU e trasmesso al giudice attraverso una relazione scritta. Occorre puntualizzare che l’ascolto di cui parliamo è sostenuto da una motivazione a comprendere e valutare l’hic et nunc dell’assetto emotivo del minore e delle dinamiche relazionali che lo riguardano, oltre naturalmente a renderlo protagonista della propria vita, piuttosto che oggetto di una transazione tra i genitori. L’ascolto è da intendersi in quest’ultimo caso, non solo come strumento d’informazione delle dinamiche familiari in atto, ma come affermazione del bisogno fondamentale di un minore di riconoscersi in quanto essere distinto dai propri genitori. L’audizione in questo caso ha un valore simbolico, perché come Westley e Epstein hanno affermato: “Ad una persona deve essere permesso di considerarsi separata dagli altri e di sperimentarsi tale, al fine di raggiungere l’identità”. I giudici minorili in generale si mostrano più favorevoli a procedere all’ascolto diretto, anche in considerazione della presenza dei componenti non togati, giudici onorari, dotati di specifiche competenze in campo psicologico, mentre con maggiore frequenza i giudici ordinari ricorrono all’ascolto indiretto, eseguito dai CTU. Personalmente, ritengo che una forma d’ascolto non debba escludere l’altra e che ciascuna possa fornire elementi aggiuntivi, in quanto fondata su esperienze e competenze diverse.

Art. 336-bis. Codice Civile
Ascolto del minore. 

Il minore che abbia compiuto gli anni dodici e anche di età inferiore ove capace di discernimento è ascoltato dal presidente del tribunale o dal giudice delegato nell’ambito dei procedimenti nei quali devono essere adottati provvedimenti che lo riguardano. Se l’ascolto è in contrasto con l’interesse del minore, o manifestamente superfluo, il giudice non procede all’adempimento dandone atto con provvedimento motivato. L’ascolto è condotto dal giudice, anche avvalendosi di esperti o di altri ausiliari. I genitori, anche quando parti processuali del procedimento, i difensori delle parti, il curatore speciale del minore, se già nominato, ed il pubblico ministero, sono ammessi a partecipare all’ascolto se autorizzati dal giudice, al quale possono proporre argomenti e temi di approfondimento prima dell’inizio dell’adempimento.

Modalità dell’ascolto, Proposte:

A) ASCOLTO DIRETTO: l’ascolto diretto può essere particolarmente efficace per l’individuazione delle domande da porre successivamente al CTU. Al fine di consentire una più spontanea audizione del minore sarebbe opportuno raccogliere preventivamente il consenso delle parti e degli avvocati a non partecipare all’audizione, e a prendere visione successivamente dei temi ed argomenti trattati dal giudice, attraverso il verbale, fermo restando la proposta di tematiche da approfondire. Una comunicazione libera, non condizionata da argomenti preventivamente sottoposti al giudice dai difensori, può ridurre il rischio di un’induzione di una o dell’altra figura genitoriale. Nel caso in cui il giudice si avvalga di un ausiliare, questi dopo un esame delle questioni che si desumono dagli atti, può coadiuvare il giudice nell’indirizzare il colloquio secondo modalità mutuate dal lavoro clinico con i bambini. I contenuti dell’audizione dovrebbero essere di volta in volta adattati all’età del minore, tenendo presente che esistono ampie discordanze sul problema della capacità di discernimento e su che cosa debba con essa intendersi. Personalmente ritengo che la scelta dei 12 anni derivi dalla teorizzazione piagetiana della crescita cognitiva, coincidendo con lo stadio operatorio formale, durante il quale gli individui imparano a pensare in termini astratti. Non più legati alla verifica concreta nel mondo esterno delle proprie idee, essi possono sottometterle a una verifica interna con mezzi logici. Discernimento indica la facoltà di apprendere e giudicare, etimologicamente ‘discernere’ indica vagliare e separare. Se riconduciamo tali facoltà ai minori, riconosciamo immediatamente che l’evoluzione cognitiva non è sufficiente a garantire il raggiungimento di una maturità emotiva e che questa è condizionata in modo prevalente dallo stile di funzionamento familiare. Nell’ascolto diretto, sin dalla fase presidenziale, sarebbe utile indagare non tanto con quale genitore il minore preferirebbe vivere, quanto piuttosto lo svolgimento delle attività scolastiche, le relazioni con gli insegnanti e i compagni, le modalità ludiche, e solo verso la fine cercare di comprendere in che modo e misura i genitori partecipino alla  crescita, formazione ed educazione della prole, indagando specifiche aree, prima della crisi/separazione ed eventualmente dopo di essa. La raccolta di informazioni dovrebbe avvenire secondo una modalità “ad imbuto”, cioè partendo dalle domande pensate allo scopo di ottenere un racconto libero degli eventi, per arrivare a quelle che richiedono risposte più specifiche. Di seguito alcuni esempi:

– Il soggetto dormiva-dorme da solo? con i fratelli? con i genitori?
– Reazioni dei genitori (o uno solo di essi) se il sogg. si svegliava- si sveglia di notte piangendo
– Al sogg. venivano-vengono dati dei castighi? Da chi?
– Il sogg. aveva-ha una stanza per sé?
– Il sogg. giocava-gioca da solo?
– Chi accompagnava-accompagna il sogg. a scuola o all’asilo?
– A chi il sogg. ricorreva-ricorre abitualmente in caso di bisogno e perché?
– Descrizione da parte del soggetto della propria madre, attraverso l’utilizzo di semplici aggettivi
– Descrizione da parte del soggetto del proprio padre, attraverso l’utilizzo di semplici aggettivi.

B) ASCOLTO INDIRETTO: il ruolo del CTU è essenzialmente valutativo e la metodologia utilizzata in ambito peritale deriva dalla formazione da questi acquisita, nonché dal riferimento a Linee guida e Protocolli in materia. Generalmente, i quesiti posti al consulente dal giudice riguardano valutazioni diagnostiche sulla personalità dei soggetti interessati, per lo più i genitori, indagini approfondite sulle relazioni intercorrenti tra il minore e i genitori ed i parenti di entrambi i rami genitoriali. Di grande frequenza è poi la richiesta, da parte del giudice, di individuare la soluzione di affido più rispondente all’interesse e al benessere psico-fisico del minore e quali siano le proposte e i suggerimenti in ordine alle concrete modalità di collocamento. Un quesito che abbia per oggetto una proposta o un suggerimento rende il ruolo del CTU più dinamico, non limitandolo alla sola competenza psicodiagnostica. Le indicazioni emerse dall’espletata consulenza possono in molti casi costituire un progetto di affidamento da verificare e monitorare, più che una dettagliata elencazione di sintomi/criticità. Occorre a questo riguardo puntualizzare che in alcuni casi, tra cui quello specifico del tema dell’affidamento condiviso, la somministrazione di alcuni inventari di personalità o di test proiettivi è non solo discrezionale, ma in molti casi superflua o inapplicabile ai fini dei quesiti posti. Quando si abbia la necessità di indagare lo stile di attaccamento di un minore o scandagliare il sistema di vita familiare può essere utile, oltre al colloquio, il ricorso ai test proiettivi grafici, seguiti da un’inchiesta più libera di quella prevista nei vari manuali di psicodiagnostica, e comunque sempre da adattarsi alle capacità cognitive ed espressive del soggetto in esame. Lo studio dell’interazione triadica (LTPc-Disegno congiunto) permette, ad esempio, di ricavare informazioni sull’alleanza familiare ed altre dinamiche. In altri casi, soprattutto con i bambini più piccoli, può essere utile ricorrere a una tecnica mutuata dalla psicoterapia infantile di matrice junghiana (SAND PLAY THERAPY) che prevede l’allestimento di una sabbiera e la manipolazione di piccoli oggetti che il bambino può muovere a piacimento, inventando un numero infinito di storie e proiettando in esse i suoi vissuti più autentici.
Personalmente, durante le consulenze, fermo restando il ricorso alle prove testistiche, tendo ad approfondire l’indagine anamnestica, a prestare attenzione alle contraddizioni tra Comunicazione verbale e Comunicazione non verbale, tentando di cogliere anche gli aspetti “sommersi”, non coscienti dei soggetti in esame. Qualunque sia la tecnica d’indagine e la metodologia prescelta, il ricorso ai test dovrebbe sempre essere accompagnato da un’attenta lettura delle dinamiche relazionali dei soggetti in esame, sempre contestualizzando le osservazioni scaturite dall’indagine peritale. Come indicato nelle “Linee guida deontologiche per lo psicologo forense”, questi presenta all’avente diritto i risultati del suo lavoro, rendendo esplicito il quadro teorico di riferimento e le tecniche utilizzate (art. 1 C.N.), così da permettere un’effettiva valutazione e critica relativamente all’interpretazione dei risultati. Egli, se è richiesto, discute con il giudice i suggerimenti indicati e le possibili modalità attuative (…) Nell’espletamento delle sue funzioni lo psicologo forense utilizza metodologie scientificamente affidabili (art. 5 C.D.; art. 1 C.N.). Nei processi per la custodia dei figli la tecnica peritale è improntata quanto più possibile al rilevamento di elementi provenienti sia dai soggetti stessi sia dall’osservazione dell’interazione dei soggetti tra di loro.

Marialuisa Vallino

Jung e l’arte: dall’esperienza personale agli esiti teorici

Jung e l’arte: dall’esperienza personale agli esiti teorici

Dopo il “divorzio” da Sigmund Freud iniziò per Carl Gustav Jung un periodo che egli stesso definì di “incertezza interiore”, caratterizzato da una spiccata introversione che lo indusse a recidere i rapporti col mondo universitario e la ricerca scientifica.
Il profondo disorientamento lo portò a una volontaria discesa nel “Regno delle Madri”, in altri termini a quel pericoloso confronto con l’inconscio e col mito che aveva trattato scientificamente in “Trasformazioni e simboli della libido”.
Scendendo nei particolari della sua esistenza, Jung si lasciò andare a quella che più tardi definì l’immaginazione attiva.
Deciso a seguire il proprio impulso creativo, anche a costo di cadere nel ridicolo, si dedicò senza remore a veri e propri giochi di bricolage, realizzando, pezzo dopo pezzo, un villaggio in miniatura che sembrava connotarsi nei termini di un’esperienza rituale.
Il “gioco” rappresentò, com’egli stesso afferma nella sua autobiografia, una sorta di preludio, un “rite d’entrée” che gli consentì di prendere contatto con un “flusso incessante di fantasie” provenienti dal “sottosuolo”.
I contenuti di alcuni sogni e visioni davvero inquietanti (fiumi di sangue, alluvioni, mareggiate, glaciazioni) apparentemente soggettivi, sembravano riguardare in realtà l’umanità intera…
Nell’autunno del 1913 Jung ebbe una serie di visioni profetiche della guerra imminente:- “Mi resi conto che si avvicinava una terribile catastrofe: vedevo i violenti flutti giallastri, le fluttuanti macerie delle opere della civiltà, gli innumerevoli morti, e infine il mare divenuto di sangue (…) Una voce interna mi disse: ”Guarda bene, è tutto vero, sarà proprio così…” (in “Ricordi, sogni, riflessioni”, pag. 217).
I sogni e le visioni cessarono nell’estate del 1914. Il primo agosto scoppiò la guerra mondiale.
Jung annotò le proprie fantasie come meglio poteva, ma nonostante i suoi sforzi nel gestire i contenuti che via via affioravano dal ‘sottosuolo’, ne scaturì un linguaggio elevato e ampolloso.
Egli ricercava costantemente il senso da attribuire a quelle immagini e una volta, mentre era intento al suo metodico lavoro di annotazione, lo colse l’idea che l’intera esperienza potesse avere a che fare con l’arte…
La seducente ipotesi gli era stata come “suggerita” da una voce femminile interna, nella quale egli aveva riconosciuto in un primo tempo una sua paziente e successivamente l’Anima, una struttura archetipica presente nell’inconscio dell’uomo. Così dialogava incessantemente con questa entità femminile, descrivendo le proprie fantasie e consultandola quasi in termini oracolari quando il suo assetto emotivo era particolarmente turbato.
Le fantasie di Jung a quei tempi erano popolate da figure bibliche come Salomè ed Elia che lo studioso riconobbe successivamente quali personificazioni di alcuni archetipi. Successivamente un’altra immagine emerse dal suo inconscio, sviluppandosi naturalmente da Elia e manifestandosi in un sogno:- “Le diedi il nome di Filemone. Filemone era un pagano, ma avvolto in un’atmosfera egizio-ellenistica, con una coloritura gnostica. La sua immagine mi si presentò per la prima volta nel sogno seguente: C’era un cielo azzurro, ma sembrava il mare, non coperto da nubi, ma da zolle di terra bruna. Sembrava che le zolle si allontanassero l’una dall’altra e lasciassero scorgere l’acqua azzurra del mare. Quest’acqua era però il cielo azzurro. Improvvisamente dalla destra giungeva, librandosi nell’aria, un essere alato. Era un vecchio con corna taurine. Portava un mazzo di quattro chiavi, tenendone una come se fosse sul punto di aprire una serratura. Era alato, e le sue ali erano quelle di un martin pescatore, con i loro caratteristici colori. Non riuscendo a capire questa immagine onirica, la dipinsi per meglio vederla. Nei giorni in cui ero occupato a dipingere trovai nel mio giardino, presso la riva del lago, un martin pescatore morto! Ero sbalordito, poiché solo di rado capita di vedere uccelli del genere nei dintorni di Zurigo. Era morto di recente, al più da due o tre giorni, e non aveva segni di ferite. Filemone e le altre immagini della mia fantasia mi diedero la decisiva convinzione che vi sono cose nella psiche che non sono prodotte dal’Io, ma si producono da sé, e hanno una vita propria…” (Ibidem, pagg.225-226).
Filemone insegno a Jung la “realtà dell’anima”, divenendo il suo guru interiore, il suo “psicagogo”.
Più tardi questa figura-guida fu offuscata dall’emergere di Ka, un’altra importante immagine prodottasi spontaneamente, che rappresentava una specie di demone della terra o del metallo.
Salomè, Elia, Filemone, Ka, erano tutte manifestazioni di processi profondi dell’inconscio, patrimonio comune a tutta l’umanità, che la crisi personale di Jung aveva per così dire “elicitato”.
Gli esiti del confronto con l’inconscio trovarono la loro prima realizzazione in una raccolta di sei piccoli volumi rilegati in pelle nera, il “Libro nero”, i cui contenuti furono successivamente trascritti in un grosso volume in folio, rilegato in pelle rossa, il “Libro rosso”.
Nel Libro rosso Jung tentò un’elaborazione artistica delle sue fantasie in un linguaggio e uno stile assai ricercati, servendosi della grafia gotica, sull’esempio dei manoscritti medievali.
La suggestione artistica deve aver influenzato Jung in maniera davvero incisiva, e questo è confermato dai diversi tentativi di dar forma estetica alle proprie immagini. I “Ricordi” ci informano che il “Libro rosso” era corredato di una serie di dipinti “mandala” realizzati a partire dal 1916.
Per mandala si intende un’immagine circolare che può essere disegnata o dipinta, ma anche modellata o addirittura tracciata danzando (si pensi alle danze dei Nativi americani o dei dervisci). Spesso questa forma contiene una quaternità e compare, come scoprì Jung in seguito alla sua esperienza personale e clinica, negli stati di disorientamento o di dissociazione psichica.
All’epoca del personale confronto con l’inconscio Jung si servì di queste forme circolari nei suoi dipinti, istintivamente, senza curarsi del loro significato. Solo qualche anno dopo, a Chateau d’Oex, dove quotidianamente tracciava disegni sul suo album, cominciò a concepire il mandala come “crittogramma del Sé”, una sorta di specchio della personalità globale che risulta armoniosa solo quando tutto procede per il meglio.
Le pitture rituali su sabbia dei Navaho possono essere considerati, al pari delle configurazioni tibetane, dei veri e propri mandala. Sembra che entrambe rispondano a chiare esigenze di tipo “curativo”, volte alla ricerca di un equilibrio, anche se la loro bellezza e armonia le avvicinano inequivocabilmente all’arte.
Il dilemma tra arte e scienza ha segnato profondamente l’esistenza di Jung, come pure il rapporto con la dimensione sovrannaturale, dal momento che lo psichiatra, durante il suo viaggio all’interno, sentiva di “obbedire a una volontà superiore”…
In un linguaggio tra il filosofico e il letterario, che corrispondeva all’incirca a quello del Libro rosso, Jung scrisse in tre sole sere, nel 1916, dei dialoghi con i defunti come risposta a un’invasione spiritica avvertita nella sua casa di Küsnacht:- “Tutta la casa era come abitata da una folla di gente, come se fosse stipata di spiriti. Si affollavano fin sotto la porta, e si aveva la sensazione di poter respirare a fatica. Ero naturalmente tormentato dalla domanda: “Per amor di Dio, di che mai si tratta?” Allora in coro gridarono:- “Torniamo da Gerusalemme, dove non abbiamo trovato ciò che cercavamo…” Queste parole corrispondono alle prime righe dei Septem Sermones ad Mortuos” (Ibidem, pagg. 234-235).
La folla di spiriti avvertita da Jung e dai suoi figli sparì quando lui decise di scrivere i Sermoni. Secondo Jung la sua anima, volata da lui durante una fantasia, si era ritirata nell’inconscio, che corrisponde alla mitica terra dei morti, la terra degli antenati. Da allora divenne sempre più chiaro che i morti rappresentavano le tracce ancestrali dell’inconscio, “le voci dell’Inesplicabile, dell’Irrisolto, dell’Irredento”…
Gli scritti di Jung, i suoi mandala, le sue fantasie avrebbero potuto trovare giusta collocazione in ambito estetico, ma lungi dall’attribuire loro un valore artistico, come avrebbe voluto imporgli la “signora estetizzante”, egli giunse alla conclusione che le voci dell’Inesplicabile, pur rappresentando il coronamento della sua esperienza negli abissi, riguardavano l’umanità intera.
La maggior parte della produzione scientifica junghiana successiva è una continua amplificazione delle produzioni fantastiche emerse in quel periodo, una traduzione teorica della sua sconvolgente vicenda personale.
A detta di Jung, la sua scienza era il solo mezzo che avesse per districarsi da quel caos. Considerare arte le sue fantasie lo avrebbe portato ad assumere un atteggiamento di mera contemplazione, allontanandolo dall’obbligo morale di ricondurle alla realtà. Inoltre, invitato ad esprimere il suo parere nei confronti dell’arte contemporanea, Jung non esitò a definire quest’ultima “magia nera”, alludendo in primo luogo all’infrazione dell’ordine razionale che gli artisti del suo tempo mettevano sistematicamente in atto e, in secondo luogo, alla mancata ricomposizione in ordine, capace di integrare gli elementi fino ad allora esclusi dalla coscienza. Agli artisti e all’arte Jung chiedeva una nuova sintesi simbolica, ordine, forma. Non gradiva i mezzi espressivi del suo tempo né accettava le forze dissolventi del linguaggio poetico o pittorico, che a suo dire era fine a se stesso. La sua scienza dunque gli permise di rielaborare le fantasie del sottosuolo, o forse la sua scienza gli impedì di credere fino in fondo di essere dotato di quel “particolarissimo linguaggio” con cui un artista osa esprimere il proprio inconscio…

BIBLIOGRAFIA:

  • Jung C. G., “Ricordi, sogni, riflessioni”, raccolti ed editi da Aniela Jaffè, edizione riveduta e accresciuta, BUR, Milano, 1978.
    •  Salza F., “La tentazione estetica”, Borla, Roma, 1987.
    •  Vallino Marialuisa, “L’estetica di C.G.Jung”, Tesi di Laurea non pubblicata, Roma, 1989.
Il Sé tra Amore e Morte: Soffio, di Kim Ki-duk

Il Sé tra Amore e Morte: Soffio, di Kim Ki-duk

Regia: Kim Ki-duk
Sogg. e sceneggiatura: Kim Ki-duk,
Interpreti: Chang Chen, Zia, Ha Jeong-woo, Hang In-hyeong, Kim Ki-duk
Orig: Sud Corea,2007

Trama: Yeon vive in una fredda casa modernista con un marito fedifrago e una figlioletta. Ascolta alla Tv di un uxoricida del luogo, Jang Jin, condannato a morte, che ha tentato in cella il suicidio. Decide di andare a trovarlo in carcere, dotandosi di un ricco materiale d’arredo e d’abbigliamento. Ad ogni incontro, che diventa sempre più intimo, allestisce, all’interno del parlatorio, una “stanza della stagione” e canta per Jang Jin una canzone corrispondente. La sua solitudine e  il disprezzo per il marito che la tradisce le permette di reinventare la sua esistenza in un altrove dalla sua casa. Il loro rapporto viene controllato dal direttore del carcere, che interrompe a suo piacimento i loro incontri. Nell’ultimo incontro, con un bacio, Yeon tenterà di strappare al suo amante la vita…

Un bacio ad alto voltaggio è l’ennesima trovata (quattordicesimo lungometraggio) del regista coreano, genio indiscusso della settima arte, la cui cifra distintiva lo inserisce a pieno titolo tra i più abili “alchimisti” dell’immagine. Realismo fantastico direbbe lui, per connotare il suo stile espressivo. Noi ci limitiamo a cogliere nel suo straordinario talento il ricorso continuo ad un “manuale di simbologia” che amplifica il dato reale per nutrirlo di ulteriori immagini che ne aumentino il volume e lo spessore e ne liberino la fecondità.
Già nel titolo è suggerita la dimensione simbolica presente nella trama. Un universo surreale, sorretto da alcune geniali invenzioni visive è quello dove si muovono Yeon e Jang Jin. Un altro uomo, un’altra donna che ripercorrono, seppure in ordine inverso, i destini di Sun- hwa e Tae-suk (Ferro 3), dando vita ad una relazione tanto intensa quanto improbabile. Anche qui, come nei film precedenti, di cui ci siamo già occupati, rimane inalterato il bisogno di creare nuovi movimenti affettivi, capaci di scardinare i vincoli imposti o subiti dal collettivo.
Il collettivo è all’interno della dimensione coniugale di Yeon, sposata ad un uomo che la tradisce e non esita a liquidare l’amante con una “correttezza” tanto ovvia da apparire grottesca. Il collettivo è all’esterno di questa famiglia: nel suo gelo, nella sua squallida e vuota routine che assembla le vite degli altri con una ritualità ossessiva e priva di senso. Il collettivo è lo sguardo voyeuristico che spinge fuori da sé il bisogno di ricomporre in unità la propria ineludibile solitudine.
Dopo, forse, c’è l’individuale, quel che resta a chi non osa incominciare una nuova vita e tuttavia ripercorre le tappe del proprio essere al mondo, nel tentativo di costruire una dimensione altra rispetto a quella reale. Al centro, una donna, un’artista, che come Pigmalione, delusa da una vita insignificante, cerca nell’arte scultorea un senso e un progetto da trasferire successivamente in una sequenza di atti cui l’opera d’arte sembra velatamente accennare…
Tra i due estremi, l’individuale e il collettivo, c’è il Sé, quel nucleo profondo e inviolabile della Personalità, che contiene in nuce il graduale cammino di autoconsapevolezza. Yeon, qui come altrove, non è tanto una donna, ma è una personificazione dell’Anima, l’altro polo di cui la Personalità maschile ha bisogno per la sua progressione. Yeon è il tramite perfetto tra dannazione e redenzione, tra desiderio e destino, tenerezza e violenza, Vita e Morte.
Tra la vita e la morte, un bacio. Un soffio, un respiro, la psiche, l’anima, seguendo il titolo etimologicamente. Il significato originario della parola ‘psiche’ deriva dal verbo greco psychein (soffiare) e letteralmente significa qualcosa che è assimilabile al respiro. Nel film, Soom in coreano, sembra esserci  una velata allusione alla pratica biqi detta del  grande giro, un esercizio taoista che consiste nel trattenere il respiro il più a lungo possibile, al fine di eliminare i “blocchi” che, secondo questa teoria, sarebbero all’origine di una qualsivoglia malattia. Seguendo una chiave di lettura psicologica, il soffio di vita che Yeon insuffla nel suo amante è anche soffio di morte, perché nell’atto di sospensione del respiro vitale c’è l’esercizio che consente di accostarsi all’immortalità. L’apnea è una sorta di disgregazione della dimensione corporea che consente di accedere alla natura reale della mente. Vita- Morte- Rinascita sembrano essere le tre tappe cui il cineasta coreano sembra alludere, dal momento che il soffio che unisce i due amanti si inserisce in un destino di redenzione reciproca. Grazie a Yeon, il condannato a morte prende coscienza del ciclico alternarsi delle stagioni della vita: primavera, estate, autunno e inverno, che qui come altrove rappresentano 4 stadi del divenire. Jang Jin sembra non possedere memoria né vitalità e la sua esistenza prende le mosse solo con l’ingresso inatteso di Yeon. E’ questa figura femminile, che lascia ad ogni passaggio un segno tangibile della sua presenza, a conferire senso e spessore alla vita del condannato. Presenza e assenza, tracce indelebili e tuttavia soggette alla legge dell’impermanenza. Le foto che Yeon lascia al suo amante vengono a questi sottratte dai compagni di cella, così come l’allestimento della stanza della stagione, che sembra connotarsi nei termini di uno spazio sacro, viene di volta in volta distrutto e buttato via.  La felicità non deriva tanto dalle cose materiali, quanto piuttosto dalla lenta acquisizione del principio di non-attaccamento e di impermanenza che permette appunto di poter sospendere gli eventi all’interno della vacuità. “Un giorno, alla nostra morte, perderemo tutti i nostri beni, il potere, la famiglia, tutto. La libertà, la pace e la gioia nel momento presente sono le cose più importanti che abbiamo, ma senza una comprensione risvegliata dell’impermanenza non ci è possibile essere felici…Se avessimo compreso davvero che la vita è impermanente, faremmo tutto il possibile per rendere felice l’altra persona già qui e ora…” (Thich Nhat Hanh, Il segreto della pace, Oscar Mondatori, Milano, 2003).
Qui, come in Ferro 3 la prigione non è tanto una limitazione della propria libertà, quanto piuttosto l’occasione per ripensare se stessi, vivendosi nell’attimo presente e nel presente cogliere l’inesorabile compiersi del destino individuale. Ma c’è qualcosa nella vita che contempla già l’idea della morte, nel soffio, che è anima allo stato puro. Seguendo l’impostazione junghiana, Yeon potrebbe rappresentare una mediatrice dell’ignoto, la personificazione di un segreto disegno che sembra riflettere una superiore conoscenza delle leggi della vita. In questo essa è Anima: è anima mundi, ma è anche la mediatrice del passaggio in una sfera di rinascita per la vita di Jang Jin. La metafora del condannato a morte esprime in Kim Ki-duk  la condizione di prigionia dell’Io e in tutti i suoi film questo stato presuppone la possibilità di un riscatto, anzi la esige. La donna, allora, è per l’uomo una porta verso l’interno, e in questo è giustificato il ricorso al soffio, l’intensa consapevolezza che all’interno sta la vita quanto la morte. Jung definisce Anima “l’archetipo del femminile” e “l’archetipo della vita”, e traccia inoltre un’analogia tra Anima e lo Yin e l’anima p’o dei cinesi; tra Anima e i concetti indiani di Māyā e Śakti; infine la collega con la Sofia degli gnostici, amplificandone la gamma emotiva e riferendola ad una vita che proietta fuori di sé la coscienza, una vita che è dietro la coscienza. Anima diventa così “la portatrice primordiale della psiche, ovvero l’archetipo della psiche stessa”( James Hillman, “Anima”, Gli Adelphi, Adelphi ed. Milano, 2002).
Il direttore del carcere rappresenta il mediatore tra la realtà individuale e quella collettiva, l’istanza di controllo, ma anche la legge del Tempo storico, cronologico, che può portare a compimento o, al contrario, interrompere drasticamente gli eventi, lasciandoli in uno spazio indefinito. Il soffio è l’accesso ad un altrove che è oltre lo spazio e il tempo; è il Tempo individuale che ricrea l’universale, secondo una legge interna, che nella Vita anticipa la Morte, confermando solennemente l’Eternità.

Marialuisa Vallino