La sponda poetica: del morire e rinascere in-versi

La sponda poetica: del morire e rinascere in-versi

Joë Bousquet, réunion de 10 lettres autographes (Christie’s)

Passante, fermati. Nel fondo dei tuoi silenzi di donna c’è un raggio nato per rischiararti queste parole di cui la più leggera coprirebbe mille notti con la sua ombra. Una mano di ferro, quando avevo solo vent’anni, mi ha dilaniato, non era nulla. Ho creduto di essere morto e questa illusione mi ha sempre separato dal cuore. Il cuore non ha mai saputo nulla di ciò che mi era accaduto né che ero sepolto vivo e una metà di me stesso era la tomba dell’altra metà. Ecco il miracolo. Amica mia, ero intatto, terribilmente intatto. Identico a me stesso in pensiero; terribilmente forte in questa convinzione, poiché essa poteva sopportare tutto il peso del mondo reale senza smentirsi. Tutto ciò che respirava, tutto ciò che amava, tendeva a schiacciarmi sotto il peso del mio corpo congelato, inutile. Ma il pensiero fu più grande di tutto quanto mi condannava all’oblio. Non c’era nulla che mi si opponesse e di cui il mio cuore non fosse l’origine. E’ molto strano: così facile a tal punto che non si sa come dirlo: l’uomo è in se stesso più grande e più forte di tutto ciò che è. E’ la grandezza, il divenire e la morte delle verità e delle cose, di cui è anche la sorgente.

 

da: Joë Bousquet, Tradotto dal silenzio (Traduit du silence, 1941), traduzione e postfazione a cura di Adriano Marchetti, 1a ed. italiana, “Biblioteca In forma di parole”, Genova, Marietti, 1987.

Se tu non parli

“Se tu non parli
riempirò il mio cuore del tuo silenzio
e lo sopporterò.
Resterò qui fermo ad aspettare come la notte
nella sua veglia stellata
con il capo chino a terra
paziente.
Ma arriverà il mattino
le ombre della notte svaniranno
e la tua voce
in rivoli dorati inonderà il cielo.
Allora le tue parole
nel canto
prenderanno ali
da tutti i miei nidi di uccelli
e le tue melodie
spunteranno come fiori
su tutti gli alberi della mia foresta”.

-Rabindranath Tagore-

Un’altra poesia dei doni

“Ringraziare voglio il divino
labirinto degli effetti e delle cause
per la diversità delle creature
che compongono questo singolare universo,
per la ragione, che non cesserà di sognare
un qualche disegno del labirinto,
per il viso di Elena e la perseveranza di Ulisse,
per l’amore, che ci fa vedere gli altri
come li vede la divinità,
per il saldo diamante e l’acqua sciolta
per l’algebra, palazzo di precisi cristalli,
per le mistiche monete di Angelus Silesius,
per Schopenhauer,
che forse decifrò l’universo,
per lo splendore del fuoco
che nessun essere umano può guardare
senza uno stupore antico

per il mogano, il cedro e il sandalo,
per il pane e il sale,
per il mistero della rosa
che prodiga colore e non lo vede,
per certe vigilie e giornate del 1955,
per i duri mandriani che nella pianura
aizzano le bestie e l’alba,
per il mattino a Montevideo,
per l’arte dell’amicizia,
per l’ultima giornata di Socrate,
per le parole che in un crepuscolo furono dette
da una croce all’altra,
per quel sogno dell’Islam che abbracciò
mille notti e una notte,
per quell’altro sogno dell’inferno,
della torre del fuoco che purifica,
e delle sfere gloriose,
per Swedenborg,
che conversava con gli angeli per le strade di Londra,
per i fiumi segreti e immemorabili
che convergono in me,
per la lingua che, secoli fa, parlai nella Northumbria,
per la spada e l’arpa dei sassoni,
per il mare, che è un deserto risplendente
e una cifra di cose che non sappiamo,
per la musica verbale dell’Inghilterra,
per la musica verbale della Germania,
per l’oro, che sfolgora nei versi,
per l’epico inverno
per il nome di un libro che non ho letto: Gesta Dei per Francos,

per Verlaine, innocente come gli uccelli,
per il prisma di cristallo e il peso d’ottone,
per le strisce della tigre,
per le alte torri di San Francisco e dell’isola di Manhattan,
per il mattino nel Texas,
per quel sivigliano che stese l’Epistola Morale
e il cui nome, come egli avrebbe preferito, ignoriamo,
per Seneca e Lucano, di Cordova,
che prima dello spagnolo scrissero
tutta la letteratura spagnola,
per il geometrico e bizzarro gioco degli scacchi,
per la tartaruga di Zenone e la mappa di Royce,
per l’odore medicinale degli eucalipti,
per il linguaggio, che può simulare la sapienza,
per l’oblio, che annulla o modifica il passato,
per la consuetudine,
che ci ripete e ci conferma come uno specchio,
per il mattino, che ci procura l’illusione di un principio,
per la notte, le sue tenebre e la sua astronomia,
per il coraggio e la felicità degli altri,
per la patria, sentita nei gelsomini
o in una vecchia spada,
per Whitman e Francesco d’Assisi, che scrissero già questa poesia,
per il fatto che questa poesia è inesauribile
e si confonde con la somma delle creature
e non arriverà mai all’ultimo verso
e cambia secondo gli uomini,
per Frances Haslam, che chiese perdono ai suoi figli
perché moriva così lentamente,
per i minuti che precedono il sonno,
per il sonno e la morte,
quei due tesori occulti,
per gli intimi doni che non elenco,
per la musica, misteriosa forma del tempo”.

-Jorge Luis Borges-

MA LIBERTÉ

“Ma liberté
Longtemps je t’ai gardée
Comme une perle rare
Ma liberté
C’est toi qui m’a aidé
A larguer les amarres
On allait n’importe où
On allait jusqu’au bout
Des chemins de fortune
On cueillait en rêvant
Une rose des vents
Sur un rayon de lune

Ma liberté
Devant tes volontés
Mon âme était soumise
Ma liberté
Je t’avais tout donné
Ma dernière chemise
Et combien j’ai souffert
Pour pouvoir satisfaire
Toutes tes exigences
J’ai changé de pays
J’ai perdu mes amis
Pour gagner ta confiance

Ma liberté
Tu as su désarmer
Toutes Mes habitudes
Ma liberté
Toi qui m’a fait aimer
Même la solitude
Toi qui m’as fait sourire
Quand je voyais finir
Une belle aventure
Toi qui m’as protégé
Quand j’allais me cacher
Pour soigner mes blessures

Ma liberté
Pourtant je t’ai quittée
Une nuit de décembre
J’ai déserté
Les chemins écartés
Que nous suivions ensemble
Lorsque sans me méfier
Les pieds et poings liés
Je me suis laissé faire
Et je t’ai trahi pour
Une prison d’amour
Et sa belle geôlière”.

-Georges Moustaki-

Allegria di naufragi

“E subito riprende
il viaggio
come
dopo il naufragio
un superstite
lupo di mare”.

-Giuseppe Ungaretti-

I poeti lavorano di notte

“I poeti lavorano di notte

quando il tempo non urge su di loro,

quando tace il rumore della folla

e termina il linciaggio delle ore.

I poeti lavorano nel buio

come falchi notturni od usignoli

dal dolcissimo canto

e temono di offendere Iddio.

Ma i poeti, nel loro silenzio

fanno ben più rumore

di una dorata cupola di stelle”.

-Alda Merini, da “Destinati a morire”-


Vengano infine

“Vengano infine le alte allegrie,

le ardenti aurore, le notti calme,

venga la pace agognata, le armonie,

e il riscatto del frutto, e il fiore delle anime.

Che vengano, amor mio, perché questi giorni

son di stanchezza mortale,

di rabbia e agonia

e nulla”.

-Josè Saramago-

-Paolo Silenziario-

Secondo ricordo

“Anche prima,

molto prima della rivolta delle ombre,

e che nel mondo cadessero piume incendiate

e un uccello potesse essere ucciso da un giglio.

Prima,

prima che tu mi domandassi

il numero e il sito del mio corpo.

Assai prima del corpo

Nell’epoca dell’anima.

Quando tu apristi nella fronte non coronata, del cielo,

la prima dinastia del sogno.

Allorché,

contemplandomi nel nulla,

inventasti la prima parola.

Allora,

il nostro incontro”.

-Rafael Alberti-

Ode a Psiche


“Ascolta, o Dea, questi versi dissonanti
Strappati dalla dolce violenza e dal ricordo caro;
E che sin entro la morbida conchiglia del tuo orecchio
Sian cantati i tuoi segreti, perdona.
Certo ho sognato, oggi, o davvero l’alata Psiche
Ho visto con i miei occhi aperti?
Giravo spensierato per un bosco
Quando di colpo estasiato per la sorpresa
Due belle creature vidi, coricate fianco a fianco,
Nell’erba folta, sotto un sussurrante tetto
Di foglie e tremuli fiori, ove un ruscello
Appena visibile scorreva:
Tra i taciti fiori dalle fresche radici, azzurri lunari,
Dolcemente profumati nei purpurei boccioli,
Giacevano con quieto respiro sopra un letto d’erba,
Le braccia intrecciate e le ali,
Solo le labbra non si toccavano, ché ancora non s’eran dette addio.
Come se sperate dalle mani dolci del sonno
Fosser pronte a superare il numero dei baci passati
Quando l’alba l’occhio tenero aprisse dell’amore nascente.
Conoscevo bene il fanciullo alato;
Ma tu, o felice colomba felice, chi eri?
La sua Psiche fedele!

Oh tu, ultima nata visione, più dolce
Sei di tutta la svanita gerarchia Dell’Olimpo,
Più bella di Diana nelle sue regioni di zaffiro,
Più bella di Venere, la lucciola amorosa del cielo,
Tu, la più bella sei, pur se tempio non hai,
Né altare colmo di fiori,
O coro di vergini che dolcemente piangano
La tua mezzanotte,
E non voce, o liuto, o flauto, o incenso squisito
Che fumi dal turibolo scosso,
O santuario, bosco, oracolo o ardore
Di profeta sognante della pallida bocca.

Tu, più splendida sei, pur troppo tardi nata
Per gli antichi voti o per l’ingenua lira appassionata,
Quando sacri erano i rami della foresta
Incantata, sacra era l’aria, l’acqua, il fuoco:
Pure, anche un questi giorni tanto lontani
Dalle fedi felici, le tue ali lucenti
Che volteggiano tra gli olimpi in rovina io vedo,
E canto, ai miei soli occhi credendo.
Si, lascia sia io il tuo coro e il pianto
Alzato per la tua mezzanotte,
Lascia si io la tua voce, il tuo liuto, il tuo flauto,
Il tuo incenso squisito che fuma dal turibolo scosso,
Il tuo santuario, il tuo bosco, il tuo oracolo e l’ardore
Di un profeta sognante dalla pallida bocca.

Voglio essere io il tuo sacerdote, e costruirti un tempio
Nelle inesplorate regioni della mia mente,
Dove ramosi pensieri, appena nati con piacevole dolore,
Mormoreranno al vento sostituendo i pini:
E lontano lontano, di vetta in vetta macchie oscure d’alberi
Vestiranno tutt’intorno i gioghi selvaggi dei monti
E zefiri, fiumi, uccelli e api culleranno
Nel sonno le driadi coricate sul muschio:
Tra questa ampia quiete
Adornerò un roseo santuario
Con la trama in intrecciata d’una mente al lavoro,
Con boccioli, campanule e stelle senza nome,
Con tutto ciò che l’alma fantasia sa inventare,
Lei, che creando fiori, sempre diversi li crea:
Per te sarà li ogni dolce piacere
Che l’ombroso pensiero può conquistare,
Una torcia splendente, un finestra aperta alla notte
Perché caldo l’amore vi possa entrare”.

-John Keats-

Autotomia

“In caso di pericolo, l’oloturia si divide in due:
dà un sé in pasto al mondo,
e con l’altro fugge.
Si scinde in un colpo in rovina e salvezza,
in ammenda e premio, in ciò che è stato e ciò che sarà.
Nel mezzo del suo corpo si apre un abisso
con due sponde subito estranee.
Su una la morte, sull’altra la vita.
Qui la disperazione, là la fiducia.
Se esiste una bilancia, ha piatti immobili.
Se c’è giustizia, eccola.
Morire quanto necessario, senza eccedere.
Rinascere quanto occorre da ciò che si è salvato.
Già, anche noi sappiamo dividerci in due.
Ma solo in corpo e sussurro interrotto.
In corpo e poesia.
Da un lato la gola, il riso dall’altro,
un riso leggero, di già soffocato.
Qui il cuore pesante, là non omnis moriar,
tre piccole parole, soltanto, tre piume di un volo.
L’abisso non ci divide.
L’abisso ci circonda”.

-Wislawa Szymborska-

Se tu mi dimentichi

Non si levava ancor l’alba novella

“Non si levava ancor l’alba novella,
né spiegavan le piume
gli augelli al nuovo lume,
ma fiammeggiava l’amorosa stella,
quando i due vaghi e leggiadretti amanti,
ch’una felice notte aggiunse insieme
come a canto si volge i vari giri,
divise il nuovo raggio; e i dolci pianti
ne l’accoglienze estreme
mescolavan co’ baci e co’ sospiri.
Mille ardenti pensier, mille desiri,
mille voglie non paghe
in quelle luci vaghe
scopria quest’alma innamorata e quella.
E dicea l’una sospirando allora:
«Anima, addio», con languide parole;
e l’altra: «Vita, addio» le rispondea;
«addio, rimanti»; e non partiansi ancora
innanzi al nuovo sole.
E’nnanzi a l’alba che nel ciel sorgea
e questa e quella impallidir vedea
le bellissime rose
ne le labbra amorose
e gli occhi scintillar come facella.
E come l’alma che si parta e svella
fu la partenza loro:
«Addio, ché parto e moro!»
Dolce languir, dolce partita e fella!”

-Torquato Tasso-

Il madrigale di Claudio Monteverdi

Les feuilles mortes

Chanson du film Les portes de la nuit de Marcel Carné (1946)

interprétée par Yves Montand

Paroles: Jacques Prévert, musique: Joseph Kosma.

“Oh, je voudrais tant que tu te souviennes,
Des jours heureux où nous étions amis,
Dans ce temps là, la vie était plus belle,
Et le soleil plus brûlant qu’aujourd’hui.
Les feuilles mortes se ramassent à la pelle,
Tu vois je n’ai pas oublié.
Les feuilles mortes se ramassent à la pelle,
Les souvenirs et les regrets aussi,
Et le vent du nord les emporte,
Dans la nuit froide de l’oubli.
Tu vois, je n’ai pas oublié,
La chanson que tu me chantais…
C’est une chanson, qui nous ressemble,
Toi qui m’aimais, moi qui t’aimais.
Nous vivions, tous les deux ensemble,
Toi qui m’aimais, moi qui t’aimais.
Et la vie sépare ceux qui s’aiment,
Tout doucement, sans faire de bruit.
Et la mer efface sur le sable,
Les pas des amants désunis.
Nous vivions, tous les deux ensemble,
Toi qui m’aimais, moi qui t’aimais.
Et la vie sépare ceux qui s’aiment,
Tout doucement, sans faire de bruit.
Et la mer efface sur le sable,
Les pas des amants désunis…”


GALLERIE SAINT-HUBERT, XIV

“Continua meraviglia
arcobaleno delle mie notti
fiume fiore carezza
innocente incantata
eco dei mie sguardi
felice lago dei miei sogni
docile innamorata
nube di primavera
maliarda che arrossisce
abbagliata senza rammarico
liana profumata
infiorescenza mattutina
tutto il mio amore
nell’universo del tuo amore.”

-André Souris-

Il n’y a pas d’amour heureux

“Rien n’est jamais acquis à l’homme Ni sa force
Ni sa faiblesse ni son coeur Et quand il croit
Ouvrir ses bras son ombre est celle d’une croix
Et quand il croit serrer son bonheur il le broie
Sa vie est un étrange et douloureux divorce
Il n’y a pas d’amour heureux

Sa vie Elle ressemble à ces soldats sans armes
Qu’on avait habillés pour un autre destin
A quoi peut leur servir de se lever matin
Eux qu’on retrouve au soir désoeuvrés incertains
Dites ces mots Ma vie Et retenez vos larmes
Il n’y a pas d’amour heureux

Mon bel amour mon cher amour ma déchirure
Je te porte dans moi comme un oiseau blessé
Et ceux-là sans savoir nous regardent passer
Répétant après moi les mots que j’ai tressés
Et qui pour tes grands yeux tout aussitôt moururent
Il n’y a pas d’amour heureux

Le temps d’apprendre à vivre il est déjà trop tard
Que pleurent dans la nuit nos coeurs à l’unisson
Ce qu’il faut de malheur pour la moindre chanson
Ce qu’il faut de regrets pour payer un frisson
Ce qu’il faut de sanglots pour un air de guitare
Il n’y a pas d’amour heureux

Il n’y a pas d’amour qui ne soit à douleur
Il n’y a pas d’amour dont on ne soit meurtri
Il n’y a pas d’amour dont on ne soit flétri
Et pas plus que de toi l’amour de la patrie
Il n’y a pas d’amour qui ne vive de pleurs
Il n’y a pas d’amour heureux
Mais c’est notre amour à tous les deux”

-poème de Louis Aragon mis en musique par Georges Brassens-

Verso il mare della dimenticanza (Lettera a A. D.)

“Non è necessario che tu mi ascolti, non è importante che tu senta le mie parole,
no, non è importante, ma io ti scrivo lo stesso
(eppure sapessi com’è strano, per me, scriverti di nuovo,
com’è bizzarro rivivere un addio…)
Ciao, sono io che entro nel tuo silenzio.

Che vuoi che sia se non potrai vedere come qui ritorna primavera
mentre un uccello scuro ricomincia a frequentare questi rami,
proprio quando il vento riappare tra i lampioni, sotto i quali passavi in solitudine.
Torna anche il giorno e con lui il silenzio del tuo amore.

Io sono qui, ancora a passare le ore in quel luogo chiaro che ti vide amare e soffrire…

Difendo in me il ricordo del tuo volto, così inquietamente vinto;
so bene quanto questo ti sia indifferente, e non per cattiveria, bensì solo per la tenerezza
della tua solitudine, per la tua coriacea fermezza,
per il tuo imbarazzo, per quella tua silenziosa gioventù che non perdona.

Tutto quello che valichi e rimuovi
tutto quello che lambisci e poi nascondi,
tutto quello che è stato e ancora è, tutto quello che cancellerai in un colpo
di sera, di mattina, d’inverno, d’estate o a primavera
o sugli spenti prati autunnali – tutto resterà sempre con me.

Io accolgo il tuo regalo, il tuo mai spedito, leggero regalo,
un semplice peccato rimosso che permette però alla mia vita di aprirsi in centinaia di varchi
sull’amicizia che hai voluto concedermi
e che ti restituisco affinché tu non abbia a perderti.

Arrivederci, o magari addio.
Lìbrati, impossèssati del cielo con le ali del silenzio
oppure conquista, con il vascello dell’oblio, il vasto mare della dimenticanza.”

-Iosif Aleksandrovič Brodskij-

Élégie

Mélodie, poésie de Louis Gallet, musique de Jules Massenet

“Ô, doux printemps d’autrefois,

Vertes saisons,

Vous avez fui pour toujours !

Je ne vois plus le ciel bleu,

Je n’entends plus les chants joyeux des oiseaux !

En emportant mon bonheur ;

Ô bien-aimé, tu t’en es allé !

Et c’est en vain que revient le printemps !

Oui ! sans retour avec toi, le gai soleil,

Les jours riants sont partis !

Comme en mon cœur tout est sombre et glacé !

Tout est flétri …

Pour toujours !”

interprété par Rosa Ponselle (soprano italo-américaine, 1897-1981)

La luce che viene

“Perfino così tardi avviene:
l’amore che arriva, la luce che viene.
Ti svegli e le candele si sono accese forse da sé,
le stelle accorrono, i sogni entrano a fiotti nel cuscino,
sprigionano caldi bouquet d’aria.
Perfino così tardi gli ossi del corpo splendono
e la polvere del domani s’incendia in respiro.”

-Mark Strand-

Vorrei

“Vorrei, allor che tu pallido e muto
pieghi la fronte tra le mani e pensi,
e ti splendon su l’animo abbattuto
i vani sogni e i desideri immensi:

vorrei per incantesimi d’amore
pianamente venire a ’l tuo richiamo,
e, su di te piegando come un fiore,
con dolce voce sussurrarti: Io t’amo!

Vorrei di tutte le mie sciolte chiome
cingerti con lentissima carezza,
e sentirmi da te chiamare a nome,
vederti folle della mia bellezza.

Vorrei per incantesimi d’amore

pianamente venire a ’l tuo richiamo,
e, su di te piegando come un fiore,
con dolce voce sussurrarti: Io t’amo!”

Gabriele D’Annunzio, con lo pseudonimo di Mario de’ Fiori

La magia della melodia da camera di Francesco Paolo Tosti, su testo di D’annunzio (in versione maschile), nell’interpretazione di Alfredo Kraus

I MIEI INCANTESIMI SONO INFRANTI

“I miei incantesimi sono infranti.
La penna mi cade,
impotente,
dalla mano tremante.
Se il mio libro é il tuo caro nome,
per quanto mi preghi,
non posso più scrivere.
Non posso pensare,
né parlare,
ahimé non posso sentire più nulla,
poiché non é nemmeno un’emozione,
questo immobile arrestarsi sulla dorata
soglia del cancello spalancato dei sogni,
fissando in estasi lo splendido scorcio,
e fremendo nel vedere,
a destra e a sinistra,
e per tutto il viale,
fra purpurei vapori,
lontano
dove termina il panorama
nient’altro che te.”

La figlia del cartografo

“La geografia dell’amore è terra infirma

è una barca di carta

governata da marinai

con stelle negli occhi

cartografi del fiammeggiante ignoto

è la mano sicura della donna

al timone del crepuscolo, la bussola

di sale del suo desiderio

la mappa della brama è sull’orlo

di due corpi distanti

è la pioggia che scaglia sete

è la foglia di palma fluttuante sulle acque

distante dalla riva

il passaggio segreto per l’entroterra

è nel mio intemperante estuario

la dolce e languida inflorescenza

è nel calibro delle tue mani

il moto circolare del nostro viaggiare

è il raggio del cielo e del mare, profonde

terre a cui diamo

il nostro nome”

-Anita Endrezze-

Da “Figlie di Pocahontas. Racconti e poesie delle indiane d’America”, Giunti ed.

IO TI OFFRO QUESTI VERSI…

“Io ti offro questi versi, non perché il tuo nome
Possa mai fiorire in questo suolo povero,
Ma perché tentare di ricordarsi,
Sono fiori recisi, il che ha senso.

Certi dicono, persi nel loro sogno, «un fiore»,
Ma significa non sapere che le parole tagliano,
se credono di designarlo, in quel che nominano,
Trasmutando ogni fiore in idea di fiore.

Tranciato il vero fiore diventa metafora,
Questa linfa che cola, è il tempo
Che finisce di liberarsi dal suo sogno.

Chi vuole avere, talvolta, la visita deve
Amare in un mazzo che abbia solo un’ora,
La bellezza non è offerta che a tal prezzo.”

-Yves Bonnefoy-

da “L’ora presente”(Mondadori, 2013), nella traduzione di Fabio Scotto

Lover, come back to me

René François Ghislain Magritte, Les Amants, 1928

René François Ghislain Magritte, Les Amants, 1928

Lyrics by Oscar Hammerstein II (1928)

“You went away
I let you
We broke the ties that bind
I wanted to forget you
And leave the past behind
Still, the magic of the night I met you
Seems to stay forever in my mind

The sky was blue
And high above
The moon was new
And so was love
This eager heart of mine was singing
Lover where can you be
You came at last
Love had its day
That day is past
You’ve gone away
This aching heart of mine is singing
Lover come back to me

When I remember every little thing
You used to do
I’m so lonely
Every road I walk along
I walk along with you
No wonder I am lonely
The sky is blue
The night is cold
The moon is new
But love is old
And while I’m waiting here
This heart of mine is singing
Lover come back to me

When I remember every little thing
You used to do
I grow lonely
Every road I walk along
I walk along with you
No wonder I am lonely
The sky is blue
The night is cold
The moon is new
But love is old
And while I’m waiting here
This heart of mine is singing
Lover come back to me…”

Lyrics by Oscar Hammerstein II, music by Sigmund Romberg (& others)

The song was performed by Lawrence Tibbett and Grace Moore in New Moon, the 1930 film directed by Jack Conway;

The Annette Hanshaw’s version, recorded in 1929:

5 HAIKU

Esiste o no
il sogno che smarrii
prima dell’alba?

*

Mute le corde.
La musica sapeva
quello che sento.

*

Sopra il deserto
avvengono le aurore.
Qualcuno lo sa.

*

L’oziosa spada
sogna le sue battaglie.
Altro è il mio sogno.

*

La luna nuova
Lei pure la guarda
da un’altra porta.

-Jorge Luis Borges-

da “La cifra” Mondadori, 1982, traduzione di Domenico Porzio

TELL ME MORE

(Tell me more and more and then some)

“Tell me more and more and then some

You know what I long to hear
I want more and more and then some
Of that “I love you only dear”

Tell me more and more and then some
The way that you feel and then
When you’ve told that old sweet story
And you’re through, start right in again
I’ve made that old mistake
Know the awful ache
Of a heart that’s double crossed
The waitin’s been so long
Hard to believ’in
If I’ve missed my guess, happiness is lost

Tell me more and more and then some
You know how I love that stuff
Whisper on from now
’til doomsday
But I never will hear enough

Tell me more and more and then some
The way that you feel and then
When you’ve told that old sweet story
And you’re through, start right in again
I’ve made that old mistake
Know the awful ache
Of a heart that’s double crossed
The waitin’s been so long
Hard to believ’in
If I’ve missed my guess, happiness is lost

Tell me more and more and then some
You know how I love that stuff
Whisper on from now
’til doomsday
But I never will hear enough…”

written and sung by Bille Holiday (1940):

DOMANDA DI PERDONO

“Molte volte ho turbato
la chiara tua pace divina
e molti degli oscuri,
profondi mali della vita
hai appreso da me.

Dimentica, perdona; come la nube
davanti alla placida luna io passo,
tu ritorni a splendere
in calma bellezza, tu dolce luce.”

– J. C. Friedrich Hölderlin –

JOË BOUSQUET

Notes sur la poésie:

Poète, ce que tu aimes, t’emportera le cœur, il ne resterait de toi que ta poussière,mais ta souffrance sera ta personne.

*

On ne remonte pas au jour sans passer par la poésie.

*

La poésie n’est plus l’attribut du poème, mais un attribut caché de ce qui existe, son horizon dans l’âme des hommes, c’est-à-dire l’horizon, dans ce qui aspire à l’être, de ce qui aspire à la mort.

*

La poésie est un sens de l’être et surréalise le réel.

*

La poésie est un appel nocturne hors de l’activité des hommes.

*

La plus grande découverte poétique a été annoncée par Rimbaud. Il a compris que les images n’étaient pas intérieures à la pensée, mais qu’elles étaient attachées aux mots et filles de leur sonorité. La pensée est fille de l’homme, la poésie est fille de l’esprit. La rime éveille la vision, parle à la rêverie. La poésie fait du voir avec de l’entendre.

La poesia, per Bousquet, è “un modo di chiamare il mondo” che libera il poeta da se stesso ma “gli restituisce il suo essere nella sua pienezza”- Aldo Carotenuto, Oltre la terapia psicologica, Bompiani, Milano, 2004 (Uno studio approfondito sulla vita di Joë Bousquet è contenuto in un precedente saggio, I sotterranei dell’anima, Bompiani, Milano, 1993)

Il sogno

“Caro amore,
per niente al mondo, solo per te,
avrei spezzato questo sogno beato,
era tema per la ragione,
troppo forte per la fantasia –
fosti saggia a svegliarmi, e tuttavia
il mio sogno tu non spezzi, lo continui.
Tu così vera.
Il pensiero di te basta
a far dei sogni verità, delle favole storia.
Viene tra le mie braccia. Poiché ti parve meglio
ch’io non sognassi tutto il mio sogno,
viviamo il resto.

Come lampo, come luce di candela

i tuoi occhi, non il rumore, mi hanno svegliato,
e ti pensai
(tu ami la verità)
un Angelo a prima vista.
Ma quando vidi che vedevi il mio cuore
e sapevi i miei pensieri come un angelo non saprebbe,
quando vidi che sapevi ciò che sognavo e quando
l’eccesso di gioia mi avrebbe svegliato
e allora apparisti – confesso
non sarebbe che profano
pensare te altro da te.

Il giungere, il restare, ti hanno rivelato,

ma il levarti mi fa ora dubitare
che tu non sia più tu.
È debole quell’amore, forte quanto la paura,
non è tutto spirito, puro e coraggioso
se l’onore mischia e la paura e il pudore.
Forse, come le torce che devono essere pronte
vengono accese e poi spente,
così tu fai con me.
Vieni per accendermi, vai per ritornare.
E io di nuovo sognerò quella speranza,
ma per non morire.”

– John Donne –

(Traduzione di Rosa Tavelli)

Zefiro torna e ‘l bel tempo rimena

“Zephiro torna, e ’l bel tempo rimena,

e i fiori et l’erbe, sua dolce famiglia,

et garrir Progne et pianger Philomena,

et primavera candida et vermiglia.

Ridono i prati, e ’l ciel si rasserena;

Giove s’allegra di mirar sua figlia;

l’aria et l’acqua et la terra è d’amor piena;

ogni animal d’amar si riconsiglia.

Ma per me, lasso, tornano i più gravi

sospiri, che del cor profondo tragge

quella ch’al ciel se ne portò le chiavi;

et cantar augelletti, et fiorir piagge,

e ’n belle donne honeste atti soavi

sono un deserto, et fere aspre et selvagge.”

-Francesco Petrarca, Canzoniere 310

musica di Claudio Monteverdi, dal Sesto libro dei madrigali a 5 voci, 6 [SV 108], (Venezia, 1614)

Zefiro torna

“Zefiro torna, e di soavi accenti

l’aer fa grato e ’l piè discioglie a l’onde

e, mormorando tra le verdi fronde,

fa danzar al bel suon su ’l prato i fiori.

Inghirlandato il crin Fillide e Clori

note temprando amor care e gioconde;

e da monti e da valli ime e profonde

raddoppian l’armonia gli antri canori.

Sorge più vaga in Ciel l’aurora, e ’l Sole

sparge più luci d’or; più puro argento

fregia di Teti il bel ceruleo manto.

Sol io, per selve abbandonate e sole,

l’ardor di due begli occhi e’l mio tormento,

come vuol mia ventura, hor piango, hor canto.”

-Ottavio Rinuccini-

musica di Claudio Monteverdi, dagli Scherzi musicali cioè arie et madrigali, 7 [SV 251] (Venezia 1632)

Puisque l’aube grandit…

Frédéric Bazille, “Portrait de Paul Verlaine comme une Troubadour”, 1868, Dallas Museum of Art.

“Puisque l’aube grandit, puisque voici l’aurore,

Puisque, après m’avoir fui longtemps, l’espoir veut bien

Revoler devers moi qui l’appelle et l’implore,

Puisque tout ce bonheur veut bien être le mien,

C’en est fait à présent des funestes pensées,

C’en est fait des mauvais rêves, ah ! c’en est fait

Surtout de l’ironie et des lèvres pincées

Et des mots où l’esprit sans l’âme triomphait.

Arrière aussi les poings crispés et la colère

À propos des méchants et des sots rencontrés;

Arrière la rancune abominable! arrière

L’oubli qu’on cherche en des breuvages exécrés!

Car je veux, maintenant qu’un Être de lumière

A dans ma nuit profonde émis cette clarté

D’une amour à la fois immortelle et première,

De par la grâce, le sourire et la bonté,

Je veux, guidé par vous, beaux yeux aux flammes douces,

Par toi conduit, ô main où tremblera ma main,

Marcher droit, que ce soit par des sentiers de mousses

Ou que rocs et cailloux encombrent le chemin;

Oui, je veux marcher droit et calme dans la Vie,

Vers le but où le sort dirigera mes pas,

Sans violence, sans remords et sans envie:

Ce sera le devoir heureux aux gais combats.

Et comme, pour bercer les lenteurs de la route,

Je chanterai des airs ingénus, je me dis

Qu’elle m’écoutera sans déplaisir sans doute;

Et vraiment je ne veux pas d’autre Paradis.”

***

Poiché l’alba si accende…

“Poiché l’alba si accende, ed ecco l’aurora,

poiché, dopo avermi a lungo fuggito, la speranza consente

a ritornare a me che la chiamo e l’imploro,

poiché questa felicità consente ad esser mia,

facciamola finita coi pensieri funesti,

basta con i cattivi sogni, ah! soprattutto

basta con l’ironia e le labbra strette

e parole in cui uno spirito senz’anima trionfava.

E basta con quei pugni serrati e la collera

per i malvagi e gli sciocchi che s’incontrano;

basta con l’abominevole rancore! basta

con l’oblìo ricercato in esecrate bevande!

Perché io voglio, ora che un Essere di luce

nella mia notte fonda ha portato il chiarore

di un amore immortale che è anche il primo

per la grazia, il sorriso e la bontà,

io voglio, da voi guidato, begli occhi dalle dolci fiamme,

da voi condotto, o mano nella quale tremerà la mia,

camminare diritto, sia per sentieri di muschio

sia che ciottoli e pietre ingombrino il cammino;

sì, voglio incedere dritto e calmo nella Vita

verso la meta a cui mi spingerà il destino,

senza violenza, né rimorsi, né invidia:

sarà questo il felice dovere in gaie lotte.

E poiché, per cullare le lentezze della via,

canterò arie ingenue, io mi dico

che lei certo mi ascolterà senza fastidio;

e non chiedo, davvero, altro Paradiso.”

-Paul Verlaine-

Robert Desnos, J’ai tant rêvé de toi :

Caspar David Friedrich, "Un uomo, una donna davanti alla luna", 1819.

Caspar David Friedrich, “Un uomo, una donna davanti alla luna”, 1819.

“È già l’una passata.
A quest’ora tu sarai a letto.
Come un fiume d’argento
traversa la notte
la Via Lattea.
Io non ho fretta
e non ti voglio svegliare
con speciali messaggi.
Come si dice,
l’incidente è chiuso.
Il balletto dell’amore
s’è infranto contro la vita circostante.
Tu ed io
siamo pari.
Non vale la pena di citare
le offese
i dolori
e i torti reciproci.
Guarda com’è pacifico il mondo.
La notte
ha imposto al cielo
un tributo stellato.
È in ore come questa
che si sorge
e si parla ai secoli,
alla storia
alla creazione.”

-Vladimir Majakovskij-

(Traduzione di Serena Vitale)

Perché…

“mancava sempre un verso o una rima
per essere felice.

Ora dobbiamo pesare ogni cosa
sulla bilancia dei sogni.

Rumori confusi, incerto chiarore.
Inizia un nuovo giorno,

il mio libero niente,

il sognare che si frantuma.

Sono l’ora semplice
e l’acqua non intorbidita.

Ha parole il tempo, come l’amore”.

-Assemblage poétique-

Le seul fait de rêver est déjà très important…

“Je vous souhaite des rêves à n’en plus finir

et l’envie furieuse d’en réaliser quelques-uns.

Je vous souhaite d’aimer ce qu’il faut aimer

et d’oublier ce qu’il faut oublier.

Je vous souhaite des passions.

Je vous souhaite des silences.

Je vous souhaite des chants d’oiseaux au réveil

et des rires d’enfants.

Je vous souhaite de résister à l’enlisement,

à l’indifférence,

aux vertus négatives de notre époque.

Je vous souhaite surtout d’être vous.”

***

“Vi auguro sogni a non finire

la voglia furiosa di realizzarne qualcuno.

Vi auguro di amare ciò che si deve amare

e di dimenticare ciò che si deve dimenticare.

Vi auguro passioni.

Vi auguro silenzi.

Vi auguro il canto degli uccelli al risveglio

e risate di bambini

Vi auguro di resistere all’affondamento,

all’indifferenza,

alle virtù negative della nostra epoca.

Vi auguro soprattutto di essere voi stessi.”

– Jacques Brel –

“Ci vorrebbero forse

altri vocaboli

parole nuove

linguaggio inventato

sorprendente ogni volta

all’osso più aderente

per coprire

d’un manto

meno consunto

di stoffa più robusta

le trame infinite

dei nostri percorsi

ci vorrebbero forse

meno immagini

offerte o imposte

perché nel buio nasca

e libera dilaghi

dei nostri sogni

l’onda.”

-Edith Dzieduszycka-

L’innamorata

Edvard Munch, “Bacio alla finestra”, 1892

Edvard Munch, “Bacio alla finestra”, 1892

“Questa è la mia finestra. È stato dolce
or ora il mio risveglio.
Credevo quasi di poter volare.
Fin dove giunge la mia vita
e ove ha inizio la notte?

Potrei pensare che ogni cosa
sia ancora Me all’intorno,
diafana come il fondo d’un cristallo,
offuscata, muta.

Potrei persino contenere
in me le stelle; tanto grande
sembra il mio cuore, e come
vorrebbe restituire libertà

a colui che forse incominciai
ad amare, forse a tenere stretto.
Estraneo, come pagina non scritta
il mio destino mi guarda.

Perché, come fui posta
in questa infinità
come un prato odorosa,
senza tregua agitata,

chiamando e a un tempo temendo
che qualcuno oda il grido,
e destinata
a perdermi in un altro.”

 -Rainer Maria Rilke-

“Quel fior che all’alba ride Il sole poi l’uccide,

E tomba ha nella sera.

È un fior la vita, la vita ancora.

L’occaso ha nell’aurora,

E perde in un sol dì la primavera.”

(Georg Friedrich Händel, HWV 192)

DE VELOURS ET DE SOIE

“Les fleurs sauvages
Les océans du monde
Les îles blondes
M’avaient toujours tenté

Finis les grands voyages
Finis les ciels oranges
Tous les frissons étranges
Tu me les as donnés

De velours et de soie
Comme ta chair parfumée
De lumière et de velours
Comme tes yeux

De rose et de lumière
Comme le goût de ta bouche
De sang et de rose fraîche
Comme tes joues

De feu, d’or et de sang
Comme un baiser que tu me donnes
D’argent de feu et d’or
Comme ton corps qui s’abandonne

De soleil et d’argent
Tes cheveux dans le vent mauve
De plaisir et de soleil
Comme une nuit dans tes bras”

-Boris Vian-

Serge Reggiani chante Boris Vian (Compositeur: Jimmy Walter)

APPARIZIONE

“La luna s’intristiva. Serafini in lacrime

sognanti, l’archetto tra le dita, nella calma

dei fiori vaporosi, traevano da viole morenti

bianchi singulti fluenti sulle azzurre corolle.

– Era il giorno benedetto del tuo primo bacio.

La mia fantasia, dedita a martirizzarmi,

s’inebriava abilmente del profumo di tristezza

che pure senza rammarico e delusione lascia

la raccolta d’un Sogno al cuore che l’ha colto.

Erravo, l’occhio fisso sul vecchio lastrico,

quando col sole sui capelli, nella strada

e nella sera, mi sei apparsa ridendo

e pensai di vedere la fata dal berretto di luce

che passava sui miei bei sogni di bimbo viziato

lasciando ogni volta dalle sue mani schiuse

nevicare bianchi fasci di stelle profumate.”

-Stéphane Mallarmé-

(traduzione di Andrea Giampietro)

The Man I Love

“Someday he’ll come along
The man I love
And he’ll be big and strong
The man I love
And when he comes my way
I’ll do my best to make him stay
He’ll look at me and smile
I’ll understand
Then in a little while
He’ll take my hand
And though it seems absurd
I know we both won’t say a word
Maybe I shall meet him Sunday
Maybe Monday, maybe not
Still I’m sure to meet him one day
Maybe Tuesday will be my good news day
He’ll build a little home
That’s meant for two
From which I’ll never roam
Who would, would you
And so all else above
I’m dreaming of the man I love”

-George and Ira Gershwin-

sung by Marion Harris (recorded in 1927)

sung by Billie Holiday (recorded in 1940)

performed by Ida Lupino (dubbed by Peg La Centra) in the omonymous film

(Raoul Walsh, 1947)

Per Vava

Marc Chagall, “ Portrait of Vava”, c.1955, Private Collection

Marc Chagall, “ Portrait of Vava”, c.1955, Private Collection

Con te io sono giovane
Quando laggiù gli alberi minacciano
E il cielo svanisce in lontananza
I tuoi occhi mi toccano

Quando ogni passo si perde sull’erba
Quando ogni passo sfiora le acque
Quando le onde mi fervono in testa
E dall’azzurro qualcuno mi chiama

Con te io sono giovane
Cadono i miei anni come foglie
E qualcuno colora le mie tele
Allora esse brillano di te

E sul tuo volto il sorriso è radioso
Più chiaro assai delle nubi più chiare
Allora io corro dove sei
Dove mi pensi e dove mi attendi”

-Marc Chagall-

(Traduzione di Plinio Acquabona)

La musica

Gustave Courbet, “Portrait de Charles Baudelaire” (1848), Musée Fabre, Montpellier

“Spesso la musica mi porta via come fa il mare. Sotto una volta di bruma o in un vasto etere metto vela verso la mia pallida stella. Petto in avanti e polmoni gonfi come vela scalo la cresta dei flutti accavallati che la notte mi nasconde; sento vibrare in me tutte le passioni d’un vascello che dolora, il vento gagliardo, la tempesta e i suoi moti convulsi sull’immenso abisso mi cullano. Altre volte, piatta bonaccia, grande specchio della mia disperazione!”

-Charles Baudelaire-

Léo Ferré chante “La Musique” de Charles Baudelaire

DIZAIN D’AMOUR XLIX

« Tant je l’aimai qu’en elle encor je vis,
Et tant la vis que, maugré moi, je l’aime.
Le sens et l’âme y furent tant ravis
Que l’Œil faut que le cœur la désaime.
Est-il possible en ce degré suprême
Que fermeté son outrepas révoque ?
Tant fut la flamme en nous deux réciproque
Que mon feu luit quand le sien clair m’appert;
Mourant le sien, le mien tôt se suffoque,
Et ainsi elle en se perdant me perd. »

-Maurice Scève-

Délie-Object de Plus Haulte Vertu- poèmes dédié à la poétesse Pernette du Guillet

[1544]

***

Épitaphe pour Pernette du Guillet

“L’heureuse cendre aultresfois composée
En un corps chaste, ou Vertu reposa,
Est en ce lieu par les Graces posée
Parmy ses os, que Beaulté composa.

O Terre indigne: en toy son repos a
Le riche Estuy de celle Ame gentile,
En tout sçauoir sur tout aultre subtile,
Tant que les Cieulx, par leur trop grand enuie,
Avant ses iours l’ont d’entre nous rauie
Pour s’enrichir d’un tel bien mescogneu :
Au Monde ingrat laissant honteuse vie,
Et longue mort a ceulx qui l’ont congneu.”

-Maurice Scève-

[1545]

Atlante

“Davanti a te la mia anima è aperta
come un atlante: puoi seguire con un dito
dal monte al mare azzurre vene di fiumi,
numerare città,
traversare deserti.
Ma dai miei fiumi nessuna piena ti minaccia,
le mie città non ti assordano con il loro clamore,
il mio deserto non è la tua solitudine
E dunque cosa conosci?
Se prendi la penna, puoi chiudere in un cerchio esattissimo
un piccolo luogo montano, dire: <<Qui fu la battaglia,
queste sono le sue silenziose Termopili>>.
Ma tu non sentisti la morte distruggere la mia parte regale,
nè salisti furtivo
col mio Efialte per un tortuoso sentiero.
E dunque cosa conosci?”

-Margherita Guidacci-

Gli occhi del sogno

René Magritte, “La Promesse”, 1950

“Tu mi dicevi: – Voglio

che il bambino abbia gli occhi come i tuoi –

Io mi toccavo le palpebre,

fissavo il cielo

per sentirmi lo sguardo

diventare più azzurro.

Tu mi dicevi: – Voglio

per questo

che tu non pianga –

Oh, per rispetto

di quello che fu tuo,

per amore

di quello che hai amato:

vedi, non piango –

vedi, i miei occhi – ancora

puri ed azzurri –

portano il raggio del sogno,

parlano ancora

di lui – con il cielo.”

-Antonia Pozzi-

(dalla raccolta di poesie “Guardami: sono nuda”, Père Lachaise- Ed. Clichy-, 2014)

Miei pensieri…

Bernardo Strozzi, "Suonatrice di viola da gamba" (Barbara Strozzi), 1635-39, Gemäldegalerie (Dresden, Germany)

Bernardo Strozzi, “Suonatrice di viola da gamba” (Barbara Strozzi), 1635-39, Gemäldegalerie (Dresden, Germany)

“Miei pensieri, e che bramate?

Non mi state più a stordire.

le bellezze ch’adorate

non vi vogliono aggradire.

Se goder voi non sperate,

miei pensieri, e che bramate?

Miei capricci, omai cessate

di seguir chi vi dà pene:

quelle luci dispietate

mai per voi non sian’ serene.

Se in amor voi delirate,

miei capricci, omai cessate.

Mie speranze, v’ingannate!

Quel bel sen’ non è per voi:

altre labra venturate

godon’ ora i pomi suoi.

Troppo, ah troppo, vaneggiate!

Mie speranze, v’ingannate!”

-Barbara Strozzi-

Arietta for soprano and continuo from Ariette a voce sola op.6, Venezia 1657.

E la parola?

René Magritte, "La voix du sang", 1961, Collection privée, Bruxelles.

René Magritte, “La voix du sang”, 1961, Collection privée, Bruxelles.

“Sottile trasparenza.

Specchi dell’acqua

in cui si riflette il bosco

e si ripete la fortezza.

Acque profonde

in cui si moltiplicano gli arcani.

Non voglio il verbo

che strangoli la bellezza

nella bocca del lupo.

Voglio la parola

che scivoli per caverne terrestri

verso il palpito.”

-Carmen Yáñez-

Da “Latitudine dei sogni”, Guanda (La fenice), 2013

Dormi bambina

Hans Zatzka, “Sleeping Beauty”

Hans Zatzka, “Sleeping Beauty”

“Dormi,dormi
bambina mentre io veglio per te,
e sogna piccolo amore
che stretta sul cuore
riposi con me

Dormi,dormi
fin quando il sole
destarti vorrà
e sogna un dolce destino
quel solo destino
che unirci potrà

Giunga nell’alcova inargentata
lieve questo canto pieno d’amor

Dormi,dormi
bambina mentre io veglio per te,
e sogna piccolo amore
che stretta sul cuore
riposi con me”

canta Alberto Rabagliati

(versi e musica di Pintaldi-Bonfanti)

Un jour je te dirai

“Un jour je te dirai
C’est toi que j’aime
Alors j’inventerai
D’ardents poèmes
Pour toi je chanterai
Les mots suprêmes
Lorsque je te dirai:
C’est toi que j’aime.”

-André de Badet – Gorni Kramer-
interprète: Tino Rossi (1936)

George Frederic Watts, “Orpheus and Eurydice”, 1869, London, Royal Academy

George Frederic Watts, “Orpheus and Eurydice”, 1869, London, Royal Academy

… “Un amore felice. Ma è necessario?
Il tatto e la ragione impongono di tacerne
come d’uno scandalo nelle alte sfere della Vita.
Magnifici pargoli nascono senza il suo aiuto.
Mai e poi mai riuscirebbe a popolare la terra,
capita, in fondo, di rado.
Chi non conosce l’amore felice
dica pure che in nessun luogo esiste l’amore felice.

Con tale fede gli sarà più lieve vivere e morire.”

-Wisława Szymborska-

(Traduzione di Pietro Marchesani)

Ricordati ragazzo

“Ricordati,
ragazzo mio ricordati,

l’amore è un gioco semplice,
facile, ma non sempre ahimè.
Tu sogni ancor,
tu tremi ancor,
ma sai l’amor
cos’è.
Ricordati,
ragazzo mio ricordati
che le parole “baciami, stringimi”
fanno poi soffrir.
Non credere,
non piangere,
dimentica,
sorridi al tuo destin.
Ricordati,
ragazzo mio ricordati
che le parole “baciami, stringimi”
fanno poi soffrir.
Non credere,
non piangere,
dimentica,
credi sol al destin.”

-Natalino Otto (1949)-

su testo di Devilli, musica di Eden Ahbez

“L’uomo è pauroso per superbia e riflessivo per calcolo; Desidera un momento, non s’innamora (che) quel tanto di tempo che basta per scrivere e per suggellare la speranza di un bacio. La donna affronta tutto quanto desidera per amore o per curiosità: va incontro all’ignoto e gode del pericolo: L’uomo non sa più tentare l’avventura; Don Giovanni è finito…in un aeroplano”

(lettera di Amalia Guglielminetti a Guido Gozzano, Beltesseno, Viù, 13-07-1909)

INCONTRO IN DIFFERITA

“Nessuno di noi ha rotto il silenzio.
I segreti, scambiati già da un pezzo.
E una voragine di secoli arrabbiati
Finiti sotto un suolo straniero.

Non ci viene in soccorso alcun versetto.
Abbiamo scordato i ritornelli
Dei nostri inni chiusi in un juke-box.
Non so in che lingua mi vorrai parlare,
Se lo farai. E soprattutto non so
Se vivi ancora nella stessa casa
O sei venuto dall’altra parte della gabbia.”

– Roberto Deidier –

(da Solstizio, Lo Specchio, Mondadori, 2014)

Mon cœur s’ouvre à ta voix

“Mon cœur s’ouvre à ta voix,

Comme s’ouvrent les fleurs
Aux baisers de l’aurore !
Mais, ô mon bien-aimé,
Pour mieux sécher mes pleurs,
Que ta voix parle encore !
Dis-moi qu’à Dalila
Tu reviens pour jamais,
Redis à ma tendresse
Les serments d’autrefois,
Ces serments que j’aimais !
Ah! réponds à ma tendresse !
Verse-moi, verse-moi l’ivresse !

Ainsi qu’on voit des blés
Les épis onduler
Sous la brise légère,
Ainsi frémit mon cœur,
Prêt à se consoler,
À ta voix qui m’est chère !
La flèche est moins rapide
À porter le trépas,
Que ne l’est ton amante
À voler dans tes bras !
Ah ! réponds à ma tendresse !
Verse-moi, verse-moi l’ivresse !”

(da Samson et Dalila”, opera lirica in tre atti su libretto di Ferdinand Lemaire
musica di Camille Saint-Saëns)

LODE ALLA DONNA

(Per un concerto)

“Con l’anima in gioia noi attraversavamo stretti e fiordi,

la felicità di vivere faceva erompere le nostre canzoni;

ovunque, sotto il fogliame,

nei gorgheggi degli uccelli

ritrovavamo la stessa ebbrezza che in noi stessi,

lo stesso desiderio di luce e di voluttà.

L’anima del poeta è come una pianta, in una tiepida giornata d’estate.

La linfa fermenta nel cuore dell’albero

e sotto l’azione misteriosa

le foglie nascono sui rami.

Così nell’anima del poeta il genio fermenta e fa schiudere la canzone.

Il bisogno di luce è la legge della vita.

Ed è in questa luce che deve vivere la donna.

In lei sola si trovano i germi della poesia

è sotto il suo sguardo che essi nascono e fruttificano

ed è a lei che tornano fatti poemi.

Che la donna sia dunque glorificata ovunque si canta

perch’essa è la gioia suprema nella primavera del poeta.”

TI HA CHIESTO

“Una ragazza ti ha chiesto: Che cosa è poesia?
Volevi dirle: Già il fatto che esisti, ah sì, che tu esisti,
e che nel tremore e stupore
che sono testimonianza del miracolo,
soffrendo mi ingelosisco della tua piena bellezza,
e che non posso baciarti e con te non mi posso giacere,
e che non ho nulla, e colui che è sprovvisto di doni
è costretto a cantare…

Ma non glielo hai detto, hai taciuto
e lei non ha udito quel canto…”

(in “Vladimír Holan, Una notte con Amleto”, Einaudi Editore.

Traduzione di Angelo Maria Ripellino)

Frédéric Bazille, “Portrait de Paul Verlaine comme une Troubadour”, 1868, Dallas Museum of Art.

-XX-

… “Pallido un debole presagio d’alba
riluceva all’orizzonte lontano:
il tuo sguardo fu il mattino.

Nessun altro rumore che il suo passo
sonoro incoraggiava il viaggiatore.
La tua voce mi disse: « Vai avanti! »”.

Angusto è – lo vedo – il tuo cuore per me

… “Ma non è nelle mie forze abbandonarti, dimenticarti,

ché il mondo si smagherebbe di tutti i colori,

e, in quella notte cieca, mute per sempre

diverrebbero tutte le folli fiabe e le folli canzoni”.

-Vladimir Sergeevič Solov’ëv-

(17 giugno 1892, trad. di Leone Pacini Savoj)

Alphonse Mucha, study for 'Poetry' (1898)

Alphonse Mucha, study for ‘Poetry’ (1898)

“Scrivi poesie
perché hai bisogno
di un posto
dove essere quello che non sei”.

-Alejandra Pizarnik-

Anelli del tempo

“Degli anelli del tempo, che si aggiungono
sempre nuovi, furono alcuni così stretti
che ne ricordo solo l’orrore di soffocare.
In altri, larghi e informi, vagai smarrita
senza un sostegno a cui aggrapparmi. I più,
pallidamente indifferenti, si ammucchiavano
gli uni sugli altri, subito saldandosi
senza nemmeno un segno di sutura.
Solo a pochi e per poco è tollerabile
riandare. Ma almeno questo, l’ultimo,
di cui oggi si chiude il cerchio, resta perfetto
nel mio cuore: cornice d’oro intorno
a uno specchio di gioia. Chiedo solo
di serbar quest’immagine. E che a te
uno stesso fulgore la riveli
e la circondi, allo scadere dell’ora,
nel tuo specchio gemello.”

-Margherita Guidacci-

Die Hexe

“Pensammo male l’uno dell’altra?…
eravamo troppo lontani.
Ma ora in questa capanna piccolissima,

attaccati al piuolo di un unico destino,
come potremmo ancora esser nemici?
Ci si deve pure amare,
quando non ci si può sfuggire.”

La tua voce

“Notte di tempesta

Questo cuore si ridesta

Ma perché non c’è tristezza in me

In questa casa oscura

Il cuore che non spera

sente una voce sussurrar:

“A te vorrei tornar”

E’ forse la tua voce

in questa notte di tempesta

che tormentandomi ridesta

una speranza nel mio cuor

E’ forse la tua voce

in questa notte d’uragano

che m’accarezza e cerca invano

di risvegliare un grande amor

Ovunque sei

se tu m’invochi verrò

Ovunque sei

tra le tue braccia rivivrò

E’ forse la tua voce…

-Carlo Buti-

(Alu-Nisa)

XVIII

“Cuando yo alcé los ojos a mirarte

(por tu bien o tu mal),

para mirarme alzabas tú los ojos

(por mi bien o mi mal).

Esa palabra que iba yo a decir

(¿de bendición o maldición sería?)

se te asomó a los labios, sin decirla.

(De bendición o maldición sería).

Nunca fuiste primera ni yo último.

(¿En qué final o para qué comienzo?)

Nunca el primero yo ni tú la última.

(¿En qué final o para qué comienzo?)

Los dos exactamente a un tiempo mismo.

y así todos los actos se abolieron

(ir yo hacia tí, venir tú a mí)

en la inutilidad de todo acto

(ir yo hacia tí, venir tú a mí)

previsto ya al nacer por otro idéntico.

y así la identidad que nos unía

(tú y yo perdidos o tú y yo salvados)

separó nuestras vidas para siempre.

(Tú y yo salvados o tú y yo perdidos).”

PEDRO SALINAS –

“Presagios” (1924)

***

“Quando io sollevai gli occhi per guardarti

(per tuo bene o tuo male)

tu per guardarmi sollevavi gli occhi

(per mio bene o mio male).

Quella parola che stavo per dire

(Cos’era, a benedire o maledire?)

ti si affacciò alle labbra senza dirla.

(Cos’era, a benedire o maledire?).

Non fosti mai la prima né io l’ultimo.

(In quale fine o per quale principio?)

Non fui mai io il primo né tu l’ultima.

(In quale fine o per quale principio?)

Noi due esattamente al tempo stesso.

E ogni azione così venne abolita

(venire io da te, e tu da me)

nell’inutilità di ogni altra azione

(venire io da te, e tu da me)

già prevista all’inizio da una identica

Così l’identità che ci legava

(tu ed io perduti o tu ed io salvati)

le nostre vite disgiunse per sempre.

(Tu ed io salvati o tu ed io perduti)”

Piensa en mi

“Si tienes un hondo penar
piensa en mí;
si tienes ganas de llorar
piensa en mí.
Ya ves que venero
tu imagen divina,
tu párvula boca
que siendo tan niña,
me enseñó a besar.

Piensa en mí
cuando beses,
cuando llores
también piensa en mí.

Cuando quieras
quitarme la vida,
no la quiero para nada,
para nada me sirve sin ti.”

-Agustín Lara-

Sonetto I

René Magritte, “Les amants IV”, 1928

René Magritte, “Les amants IV”, 1928

“Che noi si scriva, si parli o solo si sia visti
rimaniamo evanescenti. E tutto il nostro essere
non può in parola o in volto giammai trasmutarsi.
L’anima nostra è da noi immensamente lontana:
per quanta forza si imprima in quei nostri pensieri,
mostrando l’anime nostre con far da vetrinisti,
Indicibili i nostri cuori pur sempre rimangono.
Per quanto di noi si mostri continuiamo ignoti.
L’abisso tra le anime non può esser collegato
da un miraggio della vista o da un volo del pensiero.
Nel profondo di noi stessi restiamo ancora celati
quando al nostro pensiero dell’essere nostro parliamo.
Siamo i sogni di noi stessi, barlumi di anime,
e l’un per l’altro resta il sogno dell’altrui sogno.”

Reminiscencia

“Un breve instante se cruzaron
tu mirada y la mía.

Y supe de repente
-no sé si tú también-
que en un tiempo
sin años ni relojes,
otro tiempo,
tus ojos y mis ojos
se habían encontrado,
y esto de ahora
no era más que un eco,
la ola que regresa,
atravesando mares,
hasta la antigua orilla.”

***

Reminiscenza

“Si incrociarono un breve istante
il tuo sguardo e il mio.

E seppi all’improvviso
– non so se anche tu –
che in un tempo
senza anni né orologi,
un altro tempo,
i tuoi occhi e i miei
si erano incontrati,
e quella di allora
non era che un’eco,
l’onda che ritorna,
attraversando mari,
all’antica spiaggia.”

-Meira Delmar-

Somewhere Over the Rainbow

Judy Garland in a scene from the 1939 film "The Wizard of Oz"

Judy Garland in a scene from the 1939 film “The Wizard of Oz”

“Somewhere over the rainbow

Way up high,
There’s a land that I heard of
Once in a lullaby.

Somewhere over the rainbow
Skies are blue,
And the dreams that you dare to dream
Really do come true.

Someday I’ll wish upon a star
And wake up where the clouds are far
Behind me.
Where troubles melt like lemon drops
Away above the chimney tops
That’s where you’ll find me.

Somewhere over the rainbow
Bluebirds fly.
Birds fly over the rainbow.
Why then, oh why can’t I?

If happy little bluebirds fly
Beyond the rainbow
Why, oh why can’t I?”

-music by Harold Arlen and lyrics by E.Y. Harburg-

Vita

“Le lingue dell’acqua

si riversano negli alvei

dalla valle.

La terra ferita

smette il lutto.

Albeggia.

Ci sono semi, amore,

ancora

sotto il segreto delle ore morte.”

-Carmen Yáñez-

(Da “Latitudine dei sogni”, Guanda, 2013,

traduzione di Roberta Bovaia)

Razón de Amor

…Nos hemos encontrado

allí. ¿Cómo, el encuentro?

¿Fue como beso o llanto?
¿Nos hallamos
Con las manos, buscándonos
A tientas, con los gritos,
Clamando; con las bocas
Que el vacío besaban?
¿Fue un choque de materia
Y materia, combate
De pecho contra pecho,
Que a fuerza de contactos
Se convirtió en victoria
Gozosa de los dos,
En prodigioso pacto
De tu ser con mi ser
Enteros?
¿O tan sencillo fue,
Tan sin esfuerzo, como
Una luz que se encuentra
Con otra luz, y queda
Iluminado el mundo,
Sin que nada se toque?
Ninguno lo sabemos.
Ni el dónde. Aquí, en las manos,
Como las cicatrices,
Allí, dentro del alma,
Como un alma del alma,
Pervive el prodigioso
Saber que nos hallamos,
Y que su dónde está
Para siempre cerrado.
Ha sido tan hermoso
Que no sufre memoria,
Como sufren las fechas,
Los nombres o las líneas.
Nada en ese milagro
Podría ser recuerdo:
Porque el recuerdo es
La pena de sí mismo,
El dolor del tamaño,
Del tiempo, y todo fue
Eternidad: relámpago.
Si quieres recordarlo
No sirve el recordar.
Sólo vale vivir
De cara hacia ese dónde,
Queriéndolo, buscándolo.

-Pedro Salinas-

(Versos 341 a 370)

***

“Lì ci siamo incontrati.
Com’è stato l’incontro?
Fu come bacio o pianto?
Ci trovammo
con le mani, cercandoci
a tentoni, con grida,
urlando, con le bocche
che baciavano il vuoto?
Fu un urto tra materia
e materia, battaglia
di petto contro petto,
a forza di contatti
trasformata in vittoria
esaltante di entrambi,
un patto portentoso
del tuo essere col mio
interamente?
O fu invece così
facile e senza sforzo,
come una luce incontra
altra luce, ed il mondo
ne resta illuminato
senza nulla sfiorarsi?
Questo non lo sappiamo.
Né dove. Sulle mani,
qui, come cicatrici,
o laggiù dentro l’anima,
come anima dell’anima,
perdura il portentoso
sapere che ci siamo
trovati, e che il suo dove
è per sempre precluso.
È stato così bello
che non soffre memoria
come invece le date,
i nomi, o le linee.
Nulla di quel miracolo
potrebbe esser ricordo:
perché il ricordo è
la pena di se stesso,
dolore di grandezze,
del tempo, e tutto è stato
eternità: un lampo.
E se vuoi ricordarlo
ricordare non serve.
Vale soltanto vivere
con quel dove davanti,
amandolo, cercandolo.

(da “Ragione d’amore”)

De todo (quedaron) tres cosas

“De todo, quedaron tres cosas:
la certeza de que estaba siempre comenzando,
la certeza de que había que seguir
y la certeza de que sería interrumpido antes de terminar.

Hacer de la interrupción un camino nuevo,
hacer de la caída, un paso de danza,
del miedo, una escalera,
del sueño, un puente,

de la búsqueda…un encuentro.”

-Fernando Pessoa-

***

Di tutto restano tre cose:
la certezza che stiamo sempre iniziando,
la certezza che abbiamo bisogno di continuare,
la certezza che saremo interrotti prima di finire.

Pertanto, dobbiamo fare dell’interruzione, un nuovo cammino,
della caduta, un passo di danza,
della paura, una scala,
del sogno, un ponte,

del bisogno…un incontro.”

La Plus Belle Des Mers

Yves Montand chante Nâzım Hikmet-Ran

Le cœur s’est fermé dans l’amour

André Blondel, “Portrait de Joë Bousquet” - musée de Narbonne -

André Blondel, “Portrait de Joë Bousquet” – musée de Narbonne –

… “Tout ce qui chante est entré dans leur sang,

en arracha la nuit et cette nuit d’outre noir

a fait monde qui les éloigne,

et les unit avec la mémoire d’un cœur

qui se ferme dans l’amour.”

***

… “Tutto ciò che canta è entrato nel loro sangue,

strappandone la notte e questa notte oltre il nero

ha creato il mondo che li allontana,

e li unisce con la memoria di un cuore

che si ferma nell’amore.”

-Joë Bousquet-

“Mi nasconda la notte e il dolce vento.
Da casa mia cacciato e a te venuto
mio romantico amico fiume lento.

Guardo il cielo e le nuvole e le luci
degli uomini laggiù così lontani
sempre da me. Ed io non so chi voglio
amare ormai se non il mio dolore.

La luna si nasconde e poi riappare
– lenta vicenda inutilmente mossa
sovra il mio capo stanco di guardare.”

-Sandro Penna-

da “Poesie (1927-1938)”, in “Sandro Penna, Poesie”, Garzanti, 1989

“You are tired,
(I think)
Of the always puzzle of living and doing;
And so am I.

Come with me, then,
And we’ll leave it far and far away—
(Only you and I, understand!)

You have played,
(I think)
And broke the toys you were fondest of,
And are a little tired now;
Tired of things that break, and—
Just tired.
So am I.

But I come with a dream in my eyes tonight,
And knock with a rose at the hopeless gate of your heart—
Open to me!
For I will show you the places Nobody knows,
And, if you like,
The perfect places of Sleep.

Ah, come with me!
I’ll blow you that wonderful bubble, the moon,
That floats forever and a day;
I’ll sing you the jacinth song
Of the probable stars;
I will attempt the unstartled steppes of dream,
Until I find the Only Flower,
Which shall keep (I think) your little heart
While the moon comes out of the sea.”

***

“Tu sei stanca,
(Credo)
Dell’eterno puzzle di vivere e agire;
Anch’io.

Vieni con me, allora,
E andiamocene molto lontano —
(Io e te soli, capito!)

Hai giocato,
(Credo)
E hai rotto i tuoi giocattoli più cari,
E ora sei un po’ stanca;
Stanca di cose che si rompono —
Solo stanca.
Anch’io.

Ma vengo con un sogno negli occhi stasera,
E busso con una rosa alla porta del tuo cuore disperato —
Aprimi!
Ti mostrerò luoghi che Nessuno conosce
E, se vuoi,
I posti perfetti per dormire.

Ah, vieni con me!
Soffierò quella bolla meravigliosa, la luna,
Che galleggia sempre e un giorno
Ti canterò la canzone giacinto
Delle stelle probabili;
Mi avventurerò per le tranquille steppe del sogno,
Fino a trovare l’Unico Fiore,
che serba (credo) il tuo piccolo fiore
Quando la luna sorge dal mare.”

-Edward Estlin Cummings-

RIMANI

“Rimani! Riposati accanto a me.
Non te ne andare.

Io ti veglierò. Io ti proteggerò.

Ti pentirai di tutto fuorché d’essere venuto a me,
liberamente, fieramente.
Ti amo. Non ho nessun pensiero che non sia tuo;

non ho nel sangue nessun desiderio che non sia per te.

Lo sai. Non vedo nella mia vita altro compagno, non vedo altra gioia

Rimani.
Riposati. Non temere di nulla.

Dormi stanotte sul mio cuore….”

-Gabriele d’Annunzio-

La parola impossibile

A. Bierstadt, "Indian canoe", 1886, Blanton Museum of Art

A. Bierstadt, “Indian canoe”, 1886, Blanton Museum of Art

“Mi hanno dato il silenzio per serbare dentro di me
la vita che non si scambia con parole.
Me l’hanno dato per serbare dentro di me
le voci che solo in me sono vere.
Me lo hanno dato per serbare dentro di me
l’impossibile parola della verità.
Mi hanno dato il silenzio come una parola impossibile,
nuda e chiara come il fulgore di una lama invincibile,
per serbare dentro di me,
per ignorare dentro di me,
l’unica parola senza travestimento
la Parola che mai si proferisce.”

-Adolfo Casais Monteiro-

“A quel tempo cercavo i tramonti, i sobborghi e l’infelicità;

ora cerco i mattini, il centro e la serenità”.

-Jorge Luis Borges-

(Fervore di Buenos Aires – Adelphi -Milano, 2010).

È l’amore

“Sono il mittente, il latore, o chi,
ricevuto il messaggio, non sa aprirlo
o non osa, e rigira tra le mani
il plico oscuro, (forse il suo domani?).
Ho viaggiato seguendo anch’io la rotta
del sole nella immaginaria grotta
del cielo, non foss’altro per udire
lo sciacquìo del Pacifico su coste
friabili…

E forse ho creduto
che dinanzi ai miei occhi quasi inabili
lo stesso e il diverso coincidessero.
Dovevo trovare qualcuno, e
non ho fatto che una serie di frecce
indicanti che più in là, forse più in là…

Forse più in là ritroverai la dimora,
la sconosciuta per eccellenza,
la tua di cui non puoi fare senza,
anima, che se qualcuno la sorveglia,
se il tuo essere non è ancora un’essenza.

Smuovi ancora una volta la nidiata
dei fanciulli assiepati sulla soglia.
Entra. O chi entra con te, per te?
Lì troverai chi non può rispondere
a te, forse all’altro. Lì vedrai
l’inutile messaggio necessario
volatilizzarsi nelle tue mani.

Se devi essere dove non puoi essere.
Ma il raggiro è lento, compensato.
Se uno è stato dove non è stato.
È l’amore che ronza come un’ape
vicino al fiore. Il polline è incantato.

Ma il salvatore non si è salvato.”

-Piero Bigongiari-

da “L’eruzione solare della notte”,

in “Dove finiscono le tracce” (1984-1996), Le Lettere, Firenze, 1996

VENTI

J.W. Waterhouse, “Windflowers”, 1903, Private Collection.

… “Oh memoria, come raffiche di venti
vaghi oltre vicinanze e lontananze
e lasci la tragedia indietro.
Solitamente qui nella parola”.

-Nguyen Chi Trung-

Da “VENTI”- VIII- collana Scilla, Samuele Editore, 2014.

La luce

Silent movie actress Claire Windsor

Silent movie actress Claire Windsor

“Quella luce che sento
entrarmi in petto quando vedo te
non è forse una goccia della luce
creata il primo giorno,
dal profondo assetata d’esistenza?

Giaceva il nulla in agonia,
nel buio errava, solo, quando diede
l’Inconoscibile un segnale:
“Luce!”

Un mare
un’insensata tempesta di luce
dilagò in un istante:
era come una sete di peccati, di desideri, di patemi e slanci
una sete di mondo e di sole.

Dov’è sparita l’accecante
luce d’allora — chi lo sa?

Quella luce che sento entrarmi in petto
quando ti vedo — angelo mio,
forse è l’ultima goccia
della luce creata il primo giorno”.

-Lucian Blaga-

da “I poemi della luce”, Garzanti Editore, 1989

Filamenti di sole

“Filamenti di sole,
sopra lo squallore grigionero.
Un pensiero ad altezza
d’albero s’appropria il tono
che è della luce: ancora
vi sono melodie da cantare
al di là degli uomini.”

-Paul Celan-

Sei una lucciola

“Ho deciso di strapparmi la memoria a pugni
e dimenticarti come il giornale di ieri
anche se resto senza oroscopo mordendomi le unghie

perché mentre io
spruzzo i cimiteri con cannella
cammino con Truffaut sul bordo dei marciapiedi
e sono un’orchidea che sa scegliere le sue albe
tu
mi offri l’amore col coprifuoco
adorni il mio letto con lattughe
tessi angoli retti con parole
e crei favole senza pane

e poi
che peccato
non sai baciarmi dentro
non hai guardato mai le palme delle mie mani
e non comprendi il mio modo di sequestrare la luna

sei una lucciola nei miei giorni
e un poco di mercurio nella mia estate.”

-Lucía Rivadeneyra-

You Don’t Know What Love Is

“You don’t know what love is

Until you’ve learned the meaning of the blues
Until you’ve loved a love you’ve had to lose
You don’t know what love is

You don’t know how lips hurt
Until you’ve kissed and had to pay the cost
Until you’ve flipped your heart and you have lost
You don’t know what love is

Do you know how a lost heart fears?
The thought of reminiscing
And how lips that taste of tears
Lose their taste for kissing

You don’t know how hearts burn
For love that cannot live yet never dies
Until you’ve faced each dawn with sleepless eyes
You don’t know what love is

You don’t know how hearts burn
For love that cannot live yet never dies
Until you’ve faced each dawn with sleepless eyes
You don’t know what love is
What love is…”

written by Don Raye (lyrics) and Gene de Paul (music)

Psyché devant le château d’amour

"Landscape with Psyche outside the Palace of Cupid" (The Enchanted Castle) by Claude Lorrain (Claude Gellée), 1664. © National Gallery, London

“Landscape with Psyche outside the Palace of Cupid” (The Enchanted Castle) by Claude Lorrain (Claude Gellée), 1664.
© National Gallery, London

“Il rêva qu’il ouvrait les yeux, sur des soleils
Qui approchaient du port, silencieux
Encore, feux éteints; mais doublés dans l’eau grise
D’une ombre où foisonnait la future couleur.

Puis il se réveilla.
Qu’est-ce que la lumière?
Qu’est-ce que peindre ici, de nuit?
Intensifier
Le bleu d’ici, les ocres, tous les rouges,
N’est-ce pas de la mort plus encore qu’avant?

Il peignit donc le port mais le fit en ruine,
On entendait l’eau battre au flanc de la beauté
Et crier des enfants dans des chambres closes,
Les étoiles étincelaient parmi les pierres.

Mais son dernier tableau, rien qu’une ébauche,
Il semble que ce soit
Psyché qui, revenue,
S’est écroulée en pleurs ou chantonne, dans l’herbe
Qui s’enchevêtre au seuil du château d’Amour.”

-Yves Bonnefoy-

***

Psiche davanti al castello d’amore

“Sognò che apriva gli occhi, su soli
Che s’avvicinavano al porto, ancora
Silenziosi, fari spenti; ma raddoppiati nell’acqua grigia
Da un’ombra in cui cresceva il futuro colore.

Poi si risvegliò. Che cos’è la luce?
Che cos’è dipingere qui, di notte? Intensificare
Il blu di qui, gli ocra, tutti i rossi,
Non è la morte ancor piú di prima?

Quindi dipinse il porto ma lo fece in rovina,
Si sentiva l’acqua battere al fianco della bellezza
E i bambini gridare dentro camere chiuse,
Le stelle scintillavano tra le pietre.

Ma il suo ultimo quadro, soltanto uno schizzo,
Sembra essere Psiche che, tornata,
Si è accasciata in lacrime o canticchia, nell’erba
Che s’aggroviglia alla soglia del castello d’Amore.”

(Traduzione di Fabio Scotto)

Atto d'amore

Atto d’amore

… “Non parlo di un brusio atterrito nel buio

parlo del giorno e delle finestre aperte

e dell’aria fresca

e delle cose inutili da ardere nel fuoco

e della terra feconda di una nuova semina,

della nascita, dell’eterno, dell’orgoglio.

Parlo delle nostre mani innamorate

che sopra le notti hanno costruito un ponte

con il messaggio di luce del profumo e della brezza”…

-Forugh Farrokhzad-

da “Un’altra nascita”

Da “Cento poesie d'amore a Ladyhawke”, Einaudi, 2007.

Da “Cento poesie d’amore a Ladyhawke”, Einaudi, 2007.

“Facilis descensus Averno:
noctes atque dies patet atri ianua Ditis;
sed revocare gradum superasque evadere ad auras,
hoc opus, hic labor est.”

-Publio Virgilio Marone-

(Eneide, VI, 126-129)

***

“Scendere agli Inferi è facile:

la porta di Dite è aperta notte e giorno;

ma risalire i gradini e tornare a vedere il cielo,

qui sta il difficile, qui la vera fatica.”

La poésie-scène trait du film de Philippe Garrel, “Les Amants Reguliers”

“Il me manque le repos,

la douce insouciance

qui fait de la vie un miroir

où tous les objets se peignent un instant,

et sur lequel tout glisse.

Une dette pour moi est un remords.

L’amour, dont, vous autres,

vous faites un passe-temps,

trouble ma vie entière…”

Alfred de Musset-

“Les caprices de Marianne” (Cœlio)

court-métrage

Les Plaintes d’un Icare

“Les amants des prostituées
Sont heureux, dispos et repus;
Quant à moi, mes bras sont rompus
Pour avoir étreint des nuées.

C’est grâce aux astres nonpareils,
Qui tout au fond du ciel flamboient,
Que mes yeux consumés ne voient
Que des souvenirs de soleils.

En vain j’ai voulu de l’espace
Trouver la fin et le milieu;
Sous je ne sais quel oeil de feu
Je sens mon aile qui se casse;

Et brûlé par l’amour du beau,
Je n’aurai pas l’honneur sublime
De donner mon nom à l’abîme
Qui me servira de tombeau.”

– Charles Baudelaire, “Les Fleurs Du Mal”

***

I lamenti di un Icaro

“Gli amanti delle prostitute

sono felici, sazi e riposati;

quanto a me, ho le braccia rotte

per aver abbracciato nuvole.

E’ grazie ad astri incomparabili,

sfolgoranti in fondo al cielo,

che i miei occhi consunti

vedono soltanto ricordi di soli.

Invano ho voluto nello spazio

trovare la fine e il centro;

sotto un occhio di fuoco sconosciuto

sento la mia ala spezzarsi;

E arso dall’amore del bello,

non avrò l’onore sublime

di dare il nome all’abisso

che mi farà da sepoltura.”

– Charles Baudelaire, da “I fiori del male”

Entro in questo amore

“Entro in questo amore come in una cattedrale,
come in un ventre oscuro di balena.
Mi risucchia un’eco di mare, e dalle grandi volte
scende un corale antico che è fuso alla mia voce.

Tu, scelto a caso dalla sorte, ora sei l’unico,
il padre, il figlio, l’angelo e il demonio.
Mi immergo a fondo in te, il più essenziale abbraccio,
e le tue labbra restano evanescenti sogni.

Prima di entrare nella grande navata,
vivevo lieta, ero contenta di poco.
Ma il tuo fascio di luce, come un’immensa spada,
relega nel nulla tutto quanto non sei.”

-Maria Luisa Spaziani-

“L’amour est une fleur délicieuse, mais il faut avoir le courage d’aller la cueillir sur les bords d’un précipite affreux.”

-Stendhal-

***

“L’amore è un fiore delizioso, ma bisogna avere il coraggio di andarlo a cogliere

sull’orlo di un abisso spaventoso”

“Scontento di tutto e scontento di me, vorrei riscattarmi, vorrei un poco inorgoglirmi nel silenzio e nella solitudine della notte. Anime di chi ho amato, anime di chi ho cantato, datemi la forza, sorreggetemi, allontanatemi dalla menzogna e dalle esaltazioni corruttrici del mondo, e tu, Signore mio Dio! dammi la grazia di produrre qualche bel verso che provi a me stesso che non sono l’ultimo degli uomini, che non sono inferiore a quelli che disprezzo!”

The Snow Man

“One must have a mind of winter

To regard the frost and the boughs

Of the pine-trees crusted with snow;

And have been cold a long time

To behold the junipers shagged with ice,

The spruces rough in the distant glitter

Of the January sun; and not to think

Of any misery in the sound of the wind,

In the sound of a few leaves,

Which is the sound of the land

Full of the same wind

That is blowing in the same bare place

For the listener, who listens in the snow,

And, nothing himself, beholds

Nothing that is not there and the nothing that is.”

-Wallace Stevens-

***

“Si deve avere una mente d’inverno
per guardare il gelo e i rami
Dei pini incrostati di neve;

E avere freddo da molto tempo
Per vedere i ginepri irti di ghiaccio,
gli abeti ruvidi nel luccichio lontano

Del sole di gennaio; e non pensare
Ad ogni pena nel suono del vento,
Nel suono di poche foglie,

Che è il suono della terra
Percorsa dallo stesso vento
Che soffia nello stesso nudo luogo

Per l’ascoltatore, che ascolta nella neve,
E, nulla in sé, vede
Nulla che non sia lì e il nulla che è.”

“Mancava un palloncino nella mia vita
da appendere sui muri
da tenere come un gioco di carta.
Mancava un palloncino
che mi scoppiasse tra i denti
mancava l’onda di un vecchio mare perduto
mancava l’ombra, la sconclusione
il vile ricatto della vita.
Poi sei venuto tu che eri un amore
e mi hai lasciata sola.”

-Alda Merini-

-Sonnet XXX-

“When to the sessions of sweet silent thought
I summon up remembrance of things past,
I sigh the lack of many a thing I sought,
And with old woes new wail my dear time’s waste:
Then can I drown an eye, unused to flow,
For precious friends hid in death’s dateless night,
And weep afresh love’s long since cancelled woe,
And moan the expense of many a vanished sight:
Then can I grieve at grievances foregone,
And heavily from woe to woe tell o’er
The sad account of fore-bemoaned moan,
Which I new pay as if not paid before.
But if the while I think on thee, dear friend,
All losses are restored and sorrows end.”

***

“Quando all’appello del silente pensiero
io cito il ricordo dei giorni passati,
sospiro l’assenza di molte cose bramate
e a vecchie pene lamento lo spreco della mia vita:
allora, pur non avvezzi, sento inondarsi gli occhi
per gli amici sepolti nella notte eterna della morte,
e piango di nuovo pene d’amor perdute,
e soffro lo stacco di tante immagini scomparse:
allora mi affliggo per sventure ormai trascorse,
e, di dolore in dolore, tristemente ripasso
l’infelice conto delle sofferenze già sofferte
che ancora pago come non avessi mai pagato.
Ma se in quel momento io penso a te, amico caro,
ogni perdita è compensata e ogni dolor ha fine.”

VOLTA ATÉ MIM NO SILENCIO DA NOITE

“Volta até mim no silêncio da noite
a tua voz que eu amo, e as tuas palavras
que eu não esqueço. Volta até mim
para que a tua ausência não embacie
o vidro da memoria, nem o transforme
no espelho baço dos meus olhos. Volta
com os teus lábios cujo beijo sonhei num estuário
vestido com a mortalha da névoa; e traz
contigo a maré cheia da manhã com que
todos os náufragos sonharam.”

***

TORNA DA ME NEL SILENZIO DELLA NOTTE

“Torna da me nel silenzio della notte
voce che amo, e le tue parole
che mai dimentico. Torna da me
perché la tua assenza non appanni
il vetro della memoria, né lo trasformi
nello specchio opaco dei miei occhi. Torna
con le labbra di cui sognai il bacio in un estuario
rivestito del sudario della nebbia; e trascina
con te l’alta marea del mattino che ogni
naufrago ha sognato.”

-Nuno Júdice-

(da: “A te che chiamo amore” Kolibris ed.
Traduzione di Chiara De Luca )

Ricordo di Marie A.

“Un giorno di settembre, il mese azzurro,
tranquillo sotto un giovane susino
io tenni l’amor mio pallido e quieto
tra le mie braccia come un dolce sogno.
E su di noi nel bel cielo d’estate
c’era una nube ch’io mirai a lungo:
bianchissima nell’alto si perdeva
e quando riguardai era sparita.

E da quel giorno molte molte lune
trascorsero nuotando per il cielo.
Forse i susini ormai sono abbattuti:
Tu chiedi che ne è di quell’amore?
Questo ti dico: più non lo ricordo.
E pure certo, so cosa intendi.
Pure il suo volto più non lo rammento,
questo rammento: l’ho baciato un giorno.

Ed anche il bacio avrei dimenticato
senza la nube apparsa su nel cielo.
Questa ricordo e non potrò scordare:
era molto bianca e veniva giù dall’alto.
Forse i susini fioriscono ancora
e quella donna ha forse sette figli,
ma quella nuvola fiorì solo un istante
e quando riguardai sparì nel vento.”

-Bertolt Brecht-

Let Her Go

-Michael David Rosenberg-better known as Passenger-

“Nous sommes écartelés entre l’avidité de connaître
et le désespoir d’avoir connu. L’aiguillon ne renonce pas
à sa cuisson et nous à notre espoir”.

“Siamo divisi tra la brama di conoscere
e la disperazione di aver conosciuto.
La spina non rinuncia al suo morso,
noi alla nostra speranza”.

***

Le banc d’ocre

“Par une terre d’Ombre et de rampes sanguines nous
retournions aux rues. Le timon de l’amour ne nous
dépassait pas, ne gagnait plus sur nous. Tu ouvris ta
main et m’en montras les lignes. Mais la nuit s’y haussait.
Je déposai l’infime ver luisant sur le tracé de vie. Des
années de gisant s’éclairèrent soudain sous ce fanal
vivant et altéré de nous”.

Il banco d’ocra

“Tornavamo alle strade
per terre d’ombra e rampe di sangue.
Il timone dell’amore non ci sorpassava,
non ci precedeva più.
Aperta la tua mano,
me ne hai mostrato le linee:
vi sorgeva la notte.
Vi ho deposto una minuscola lucciola
affinché brillasse sul solco della vita:
anni di rinunce s’illuminarono di colpo
sotto quella lampada vivente
infatuata di noi”.

***

“Les yeux clos et dans l’effort de m’endormir, je vois
Luire au fond de mes paupières une braise qui est l’ âme
obstinée, l’épave clignotante du naufrage glorieux de ma
journée”.

“Ad occhi chiusi e nello sforzo di prendere sonno,
vedo brillare, sul fondo delle mie palpebre,
una brace: è l’anima ostinata,
il relitto lampeggiante
del naufragio glorioso del mio giorno”.

-René Char-

(Traduzione: Giorgio Caproni)

Nulla di nulla

“Strappami dal sospetto insostenibile
di essere nulla, più nulla di nulla.
Non esiste nemmeno la memoria.
Non esistono cieli.

Davanti agli occhi un pianoro di neve,
giorni non numerabili, cristalli
di una neve che sfuma all’orizzonte –
– e non c’è l’orizzonte –”

-Maria Luisa Spaziani-

(da “La traversata dell’oasi”, Mondadori, 2002)

Magnificat

René Magritte, "Le pays des miracles", 1964

René Magritte, “Le pays des miracles”, 1964

“Quando é que passará esta noite interna, o universo,
E eu, a minha alma, terei o meu dia?
Quando é que despertarei de estar acordado?
Não sei. O sol brilha alto,
Impossível de fitar.
As estrelas pestanejam frio,
Impossíveis de contar.
O coração pulsa alheio,
Impossível de escutar.
Quando é que passará este drama sem teatro,
Ou este teatro sem drama,
E recolherei a casa?
Onde? Como? Quando?
Gato que me fitas com olhos de vida, que tens lá no fundo?
É esse! É esse!
Esse mandará como Josué parar o sol e eu acordarei;
E então será dia.
Sorri, dormindo, minha alma!
Sorri, minha alma, será dia !”

-Fernando Pessoa-

(da “Álvaro de Campos, Poesia”, Assírio & Alvim, Lisboa, 2002)

***

Magnificat

“Quando passerà questa notte interna, l’universo,
e io, l’anima mia, avrò il mio giorno?
Quando mi desterò dall’essere desto?
Non so. Il sole brilla alto:
impossibile guardarlo.
Le stelle ammiccano fredde:
impossibile contarle.
Il cuore batte estraneo:
impossibile ascoltarlo.
Quando finirà questo dramma senza teatro,
o questo teatro senza dramma,
e potrò tornare a casa?
Dove? Come? Quando?
Gatto che mi fissi con occhi di vita, chi hai là in fondo?
Si, sì, è lui!
Lui, come Giosuè, farà fermare il sole e io mi sveglierò;
e allora sarà giorno.
Sorridi nel sonno, anima mia!
Sorridi, anima mia: sarà giorno!”

-Fernando Pessoa-

(da “Poesie di Álvaro de Campos”, Adelphi Edizioni, 1993)

Feeling good

GUARDA LE STELLE

“Guarda le stelle: molte ardono
Nel silenzio della notte
E splendono attorno alla luna
Nell’azzurro del cielo.
Guarda le stelle: tra esse ce n’è una
A me più cara di ogni altra.
Per quale ragione? Si alza per prima
O brilla più vivida?
No! Il suo lume conforta cuori amici
Costretti a separarsi,
e i loro occhi si incontrano in lei,
lassù in alto nell’azzurrità.
Appena la vedi apparire nel cielo,
ti guarda pensosa anch’essa,
e il suo sguardo risponde al tuo
e teneramente riarde.
Nel turchino della notte non stacchiamo
I nostri occhi da lei:
la seguiamo dalla terra al cielo
e dal cielo alla terra.
E tu, hai già scelto la tua stella?
Nel silenzio della notte
Molte splendono e ardono
Nell’azzurro del cielo.
Non affidare il tuo cuore alla prima
Che vedi a te davanti,
non dir tua, futile in amore,
la più fulgida di tutte,
ma chiama invece tua solo la stella
che guarda pensierosa,
e il cui sguardo risponde al tuo
e teneramente riarde.”

-Evgenij Abramovič Baratynskij-

Amando, dove sei?

“Cosa insinua di incerto l’amore
nella speranza, il fiore quale scandalo
nella sua erta oltranza? Dove sei,
amando dove sei?

Nell’altra stanza
odi un canto, un passo strascicato
di danza, e non ci vai, resti dubbioso.
Sai che talvolta è meglio la distanza
che inoltrarti in un ritmo che ascolti
e che vuoi che rimanga nel suo enigma
in cui molti significati, troppi
forse, sono racchiusi nel suo stigma.”

-Piero Bigongiari-

Parla piano

“Parla piano e poi
non dire quel che hai detto già
le bugie non invecchiano
sulle tue labbra aiutano

Tanto poi
è un’altra solitudine specchiata
scordiamoci di attendere
il volto per rimpiangere

Parla ancora e poi
dimmi quel che non mi dirai
versami il veleno di
quel che hai fatto prima

Su di noi
il tempo ha già giocato, ha già scherzato
ora non rimane che
trovar la verità

Che ti dà, che ti dà
nascondere negli angoli
dire e non dire, il gusto di tradire una stagione

Sopra il volto tuo
pago il pegno di
volere ancora avere, ammalarmi di te
raccontandoti di me

Quando ami qualcuno
meglio amarlo davvero, e del tutto
o non prenderlo affatto
dove hai tenuto nascosto finora chi sei

Cercare mostrare approvare una parte di sé
un paradiso di bugie

La verità non si sa, non si sa
come riconoscerla
cercarla nascosta nelle tasche, i cassetti, il telefono

Che ti dà, che mi dà
cercare dietro gli angoli
celare i pensieri, morire da soli
in un’alchimia di desideri

Sopra il volto tuo
pago il pegno di
rinunciare a me non sapendo dividere
dividermi con te

Che ti dà, che mi dà
affidarsi a te, non fidandomi di me

Sopra il volto tuo
pago il pegno di
rinunciare a noi
dividerti soltanto
nel volto del ricordo.”

-Vinicio Capossela-

Je connais des bateaux

“Je connais des bateaux qui restent dans le port
De peur que les courants les entraînent trop fort.

Je connais des bateaux qui rouillent dans le port
A ne jamais risquer une voile au dehors.

Je connais des bateaux qui oublient de partir
Ils ont peur de la mer à force de vieillir,
Et les vagues, jamais, ne les ont séparés,
Leur voyage est fini avant de commencer…”

Paroles et Musique: Mannick ( MarieAnnick Rétif )

***

“Conosco delle barche
che restano nel porto per paura
che le correnti le trascinino via con troppa violenza.

Conosco delle barche che arrugginiscono in porto
per non aver mai rischiato una vela fuori.

Conosco delle barche che si dimenticano di partire
hanno paura del mare a furia di invecchiare
e le onde non le hanno mai portate altrove,
il loro viaggio è finito ancora prima di iniziare…”

Mappa per pregare

… “Non serve schiodare il cielo
a caccia di segreti,
sei tu
che di notte scegli,
non guardi la luce minuscola
ma il buio tutto
che le preme attorno.
Visto che non puoi
essere qui, allora ama altrove,
in rettilinea sequenza,
allora prega.”

-Chandra Livia Candiani-

SOTTOVOCE

Heinrich Vogeler, “Sehnsucht” (Träumerei),1908

“Una sera di nuvole, di freddo
e di luce che spiega ad altro il senso
della mia vita, questo vago accordo
di memorie in sordina, sottovoce
di me, di te, poveramente assorti.

Si resta a volte soli nella veglia
di un racconto sospeso, allora soli,
ignoti l’uno all’altro, ed ora uniti
dal ricordo che un nulla ci divise.

Il rammarico punge, se mi dici:
«bastava che quel giorno…», ti sorrido
con la mesta sfiducia di sapere
che mai giunsi per tempo, che geloso
di te, del tuo passato, almeno vedo
il tuo sguardo d’amore al primo incontro.

Ma forse è giusto credere che allora
tu m’avresti perduto:
come un ragazzo che si lascia indietro
nella paura d’essere felice.”

-Alfonso Gatto-

“Le vere fiabe d’amore sono queste”, diceva, “del castello incantato, della bella sconosciuta che si corica nella notte, e sparisce all’alba e ricompare, finché l’eroe non trasgredisce a una condizione posta (non vederla in viso, non chiedere il suo nome ecc.) e allora tutto sparisce, ed è questa la storia dell’amore, il suo struggimento: il ritrovarla… Conquistare una donna non è ancora l’amore, l’amore viene dopo, la sua unghia che stana, la sua felicità che fa stravedere viene in questo inseguirci, combattere l’assenza, la distanza”.

-Italo Calvino- (tratto da Elsa De’ Giorgi, “Ho visto partire il tuo treno”, Leonardo, 1992 e Feltrinelli, 2017)

Les chats

Didier Lourenço, “Why”, oil on canvas, 2013

Didier Lourenço, “Why”, oil on canvas, 2013

“Les amoureux fervents et les savants austères
Aiment également, dans leur mûre saison,
Les chats puissants et doux, orgueil de la maison,
Qui comme eux sont frileux et comme eux sédentaires.

Amis de la science et de la volupté
Ils cherchent le silence et l’horreur des ténèbres ;
L’Erèbe les eût pris pour ses coursiers funèbres,
S’ils pouvaient au servage incliner leur fierté.

Ils prennent en songeant les nobles attitudes
Des grands sphinx allongés au fond des solitudes,
Qui semblent s’endormir dans un rêve sans fin ;

Leurs reins féconds sont pleins d’étincelles magiques,
Et des parcelles d’or, ainsi qu’un sable fin,
Etoilent vaguement leurs prunelles mystiques.”

Charles Baudelaire, “Les fleurs du mal”-

***

I gatti

“I fervidi innamorati e gli austeri dotti

Amano ugualmente, nella loro età matura,

I gatti possenti e dolci, orgoglio della casa,

Come loro freddolosi e sedentari.

Amici della scienza e della voluttà,

ricercano il silenzio e l’orrore delle tenebre;

l’Erebo li avrebbe presi per funebri corsieri,

Se mai avesse potuto piegare al servaggio la loro fierezza.

Prendono, meditando, i nobili atteggiamenti

delle grandi Sfingi allungate in fondo a solitudini,

Che sembrano addormirsi in un sogno senza fine;

Le loro reni feconde sono piene di magiche scintille,

E di frammenti aurei, come sabbia fine

Scintillano vagamente le loro pupille mistiche.”

Nei giardini dei poeti

“Ruscello vivo è l’amore che corre
nei giardini dei poeti
e genera rose, e genera pioggia e pianto.
Perché l’amore ha così tante varianti di sole?
Perché piange per un nonnulla?
Perché chiede chiede una mano e la rifiuta?
Perché l’amore sente la colpa,
ed è un grande peccato di non accettazione.
Perché la rosa nasce e si sfibra in un solo giorno
perché la toccano tutti
senza pensare che ogni petalo è una bianca vena
e può morire soltanto per un dito
che sbagli nel contatto.
Per toccare una rosa
ci vuole un credo di Dio,

una magica aspettazione e nessun tempo.
Rifiutare un amore
è come rifiutare un grande banchetto
dove sei il primo invitato
e forse ti dà fastidio la sedia,
ti dan fastidio gli applausi,
forse ti dà fastidio quel trono che non vorresti lasciare.
Perché rifiuti l’amore?
Perché sai che la sedia è provvisoria
e che il banchetto dura una sola giornata.
L’uomo per sé vuole le cose eterne
e non sa come dirlo all’altro
che non ha capito niente.”

-Alda Merini-

Quel che c’è in me

Giorgio De Chirico, "La stanchezza dell'infinito", 1912-13

Giorgio De Chirico, “La stanchezza dell’infinito”, 1912-13

“Quel che c’è in me è soprattutto stanchezza –
Non di questo né di quello,
neanche di tutto o di niente:
stanchezza proprio così, proprio lei,
stanchezza.

La tenuità di sensazioni inutili,
le passioni violente per cosa alcuna,
gli amori intensi per immaginarli in altri,
queste cose tutte –
queste e quel che manca in esse eternamente –;
tutto questo dà stanchezza,
questa stanchezza,
stanchezza.

C’è senza dubbio chi ama l’infinito,
c’è senza dubbio chi desidera l’impossibile,
c’è senza dubbio chi non vuole niente –
Tre tipi di idealisti, e io nessuno di loro:
perché io amo infinitamente il finito,
perché io cerco impossibilmente il possibile,
perché voglio tutto, o un po’ di più, se si può,
o pure se non si può…

E il risultato?
Per essi la vita vissuta o sognata,
per essi il sogno sognato o vissuto,
per essi la media fra tutto e niente, cioè, la vita.
Per me, solo una grande, profonda,
e, ah con quale felicità infeconda, stanchezza,
una superrima stanchezza,
errima, errima, errima,

stanchezza…”

sgnt

Valzer per un amore

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Jung e l’arte: dall’esperienza personale agli esiti teorici

Jung e l’arte: dall’esperienza personale agli esiti teorici

Dopo il “divorzio” da Sigmund Freud iniziò per Carl Gustav Jung un periodo che egli stesso definì di “incertezza interiore”, caratterizzato da una spiccata introversione che lo indusse a recidere i rapporti col mondo universitario e la ricerca scientifica.
Il profondo disorientamento lo portò a una volontaria discesa nel “Regno delle Madri”, in altri termini a quel pericoloso confronto con l’inconscio e col mito che aveva trattato scientificamente in “Trasformazioni e simboli della libido”.
Scendendo nei particolari della sua esistenza, Jung si lasciò andare a quella che più tardi definì l’immaginazione attiva.
Deciso a seguire il proprio impulso creativo, anche a costo di cadere nel ridicolo, si dedicò senza remore a veri e propri giochi di bricolage, realizzando, pezzo dopo pezzo, un villaggio in miniatura che sembrava connotarsi nei termini di un’esperienza rituale.
Il “gioco” rappresentò, com’egli stesso afferma nella sua autobiografia, una sorta di preludio, un “rite d’entrée” che gli consentì di prendere contatto con un “flusso incessante di fantasie” provenienti dal “sottosuolo”.
I contenuti di alcuni sogni e visioni davvero inquietanti (fiumi di sangue, alluvioni, mareggiate, glaciazioni) apparentemente soggettivi, sembravano riguardare in realtà l’umanità intera…
Nell’autunno del 1913 Jung ebbe una serie di visioni profetiche della guerra imminente:- “Mi resi conto che si avvicinava una terribile catastrofe: vedevo i violenti flutti giallastri, le fluttuanti macerie delle opere della civiltà, gli innumerevoli morti, e infine il mare divenuto di sangue (…) Una voce interna mi disse: ”Guarda bene, è tutto vero, sarà proprio così…” (in “Ricordi, sogni, riflessioni”, pag. 217).
I sogni e le visioni cessarono nell’estate del 1914. Il primo agosto scoppiò la guerra mondiale.
Jung annotò le proprie fantasie come meglio poteva, ma nonostante i suoi sforzi nel gestire i contenuti che via via affioravano dal ‘sottosuolo’, ne scaturì un linguaggio elevato e ampolloso.
Egli ricercava costantemente il senso da attribuire a quelle immagini e una volta, mentre era intento al suo metodico lavoro di annotazione, lo colse l’idea che l’intera esperienza potesse avere a che fare con l’arte…
La seducente ipotesi gli era stata come “suggerita” da una voce femminile interna, nella quale egli aveva riconosciuto in un primo tempo una sua paziente e successivamente l’Anima, una struttura archetipica presente nell’inconscio dell’uomo. Così dialogava incessantemente con questa entità femminile, descrivendo le proprie fantasie e consultandola quasi in termini oracolari quando il suo assetto emotivo era particolarmente turbato.
Le fantasie di Jung a quei tempi erano popolate da figure bibliche come Salomè ed Elia che lo studioso riconobbe successivamente quali personificazioni di alcuni archetipi. Successivamente un’altra immagine emerse dal suo inconscio, sviluppandosi naturalmente da Elia e manifestandosi in un sogno:- “Le diedi il nome di Filemone. Filemone era un pagano, ma avvolto in un’atmosfera egizio-ellenistica, con una coloritura gnostica. La sua immagine mi si presentò per la prima volta nel sogno seguente: C’era un cielo azzurro, ma sembrava il mare, non coperto da nubi, ma da zolle di terra bruna. Sembrava che le zolle si allontanassero l’una dall’altra e lasciassero scorgere l’acqua azzurra del mare. Quest’acqua era però il cielo azzurro. Improvvisamente dalla destra giungeva, librandosi nell’aria, un essere alato. Era un vecchio con corna taurine. Portava un mazzo di quattro chiavi, tenendone una come se fosse sul punto di aprire una serratura. Era alato, e le sue ali erano quelle di un martin pescatore, con i loro caratteristici colori. Non riuscendo a capire questa immagine onirica, la dipinsi per meglio vederla. Nei giorni in cui ero occupato a dipingere trovai nel mio giardino, presso la riva del lago, un martin pescatore morto! Ero sbalordito, poiché solo di rado capita di vedere uccelli del genere nei dintorni di Zurigo. Era morto di recente, al più da due o tre giorni, e non aveva segni di ferite. Filemone e le altre immagini della mia fantasia mi diedero la decisiva convinzione che vi sono cose nella psiche che non sono prodotte dal’Io, ma si producono da sé, e hanno una vita propria…” (Ibidem, pagg.225-226).
Filemone insegno a Jung la “realtà dell’anima”, divenendo il suo guru interiore, il suo “psicagogo”.
Più tardi questa figura-guida fu offuscata dall’emergere di Ka, un’altra importante immagine prodottasi spontaneamente, che rappresentava una specie di demone della terra o del metallo.
Salomè, Elia, Filemone, Ka, erano tutte manifestazioni di processi profondi dell’inconscio, patrimonio comune a tutta l’umanità, che la crisi personale di Jung aveva per così dire “elicitato”.
Gli esiti del confronto con l’inconscio trovarono la loro prima realizzazione in una raccolta di sei piccoli volumi rilegati in pelle nera, il “Libro nero”, i cui contenuti furono successivamente trascritti in un grosso volume in folio, rilegato in pelle rossa, il “Libro rosso”.
Nel Libro rosso Jung tentò un’elaborazione artistica delle sue fantasie in un linguaggio e uno stile assai ricercati, servendosi della grafia gotica, sull’esempio dei manoscritti medievali.
La suggestione artistica deve aver influenzato Jung in maniera davvero incisiva, e questo è confermato dai diversi tentativi di dar forma estetica alle proprie immagini. I “Ricordi” ci informano che il “Libro rosso” era corredato di una serie di dipinti “mandala” realizzati a partire dal 1916.
Per mandala si intende un’immagine circolare che può essere disegnata o dipinta, ma anche modellata o addirittura tracciata danzando (si pensi alle danze dei Nativi americani o dei dervisci). Spesso questa forma contiene una quaternità e compare, come scoprì Jung in seguito alla sua esperienza personale e clinica, negli stati di disorientamento o di dissociazione psichica.
All’epoca del personale confronto con l’inconscio Jung si servì di queste forme circolari nei suoi dipinti, istintivamente, senza curarsi del loro significato. Solo qualche anno dopo, a Chateau d’Oex, dove quotidianamente tracciava disegni sul suo album, cominciò a concepire il mandala come “crittogramma del Sé”, una sorta di specchio della personalità globale che risulta armoniosa solo quando tutto procede per il meglio.
Le pitture rituali su sabbia dei Navaho possono essere considerati, al pari delle configurazioni tibetane, dei veri e propri mandala. Sembra che entrambe rispondano a chiare esigenze di tipo “curativo”, volte alla ricerca di un equilibrio, anche se la loro bellezza e armonia le avvicinano inequivocabilmente all’arte.
Il dilemma tra arte e scienza ha segnato profondamente l’esistenza di Jung, come pure il rapporto con la dimensione sovrannaturale, dal momento che lo psichiatra, durante il suo viaggio all’interno, sentiva di “obbedire a una volontà superiore”…
In un linguaggio tra il filosofico e il letterario, che corrispondeva all’incirca a quello del Libro rosso, Jung scrisse in tre sole sere, nel 1916, dei dialoghi con i defunti come risposta a un’invasione spiritica avvertita nella sua casa di Küsnacht:- “Tutta la casa era come abitata da una folla di gente, come se fosse stipata di spiriti. Si affollavano fin sotto la porta, e si aveva la sensazione di poter respirare a fatica. Ero naturalmente tormentato dalla domanda: “Per amor di Dio, di che mai si tratta?” Allora in coro gridarono:- “Torniamo da Gerusalemme, dove non abbiamo trovato ciò che cercavamo…” Queste parole corrispondono alle prime righe dei Septem Sermones ad Mortuos” (Ibidem, pagg. 234-235).
La folla di spiriti avvertita da Jung e dai suoi figli sparì quando lui decise di scrivere i Sermoni. Secondo Jung la sua anima, volata da lui durante una fantasia, si era ritirata nell’inconscio, che corrisponde alla mitica terra dei morti, la terra degli antenati. Da allora divenne sempre più chiaro che i morti rappresentavano le tracce ancestrali dell’inconscio, “le voci dell’Inesplicabile, dell’Irrisolto, dell’Irredento”…
Gli scritti di Jung, i suoi mandala, le sue fantasie avrebbero potuto trovare giusta collocazione in ambito estetico, ma lungi dall’attribuire loro un valore artistico, come avrebbe voluto imporgli la “signora estetizzante”, egli giunse alla conclusione che le voci dell’Inesplicabile, pur rappresentando il coronamento della sua esperienza negli abissi, riguardavano l’umanità intera.
La maggior parte della produzione scientifica junghiana successiva è una continua amplificazione delle produzioni fantastiche emerse in quel periodo, una traduzione teorica della sua sconvolgente vicenda personale.
A detta di Jung, la sua scienza era il solo mezzo che avesse per districarsi da quel caos. Considerare arte le sue fantasie lo avrebbe portato ad assumere un atteggiamento di mera contemplazione, allontanandolo dall’obbligo morale di ricondurle alla realtà. Inoltre, invitato ad esprimere il suo parere nei confronti dell’arte contemporanea, Jung non esitò a definire quest’ultima “magia nera”, alludendo in primo luogo all’infrazione dell’ordine razionale che gli artisti del suo tempo mettevano sistematicamente in atto e, in secondo luogo, alla mancata ricomposizione in ordine, capace di integrare gli elementi fino ad allora esclusi dalla coscienza. Agli artisti e all’arte Jung chiedeva una nuova sintesi simbolica, ordine, forma. Non gradiva i mezzi espressivi del suo tempo né accettava le forze dissolventi del linguaggio poetico o pittorico, che a suo dire era fine a se stesso. La sua scienza dunque gli permise di rielaborare le fantasie del sottosuolo, o forse la sua scienza gli impedì di credere fino in fondo di essere dotato di quel “particolarissimo linguaggio” con cui un artista osa esprimere il proprio inconscio…

BIBLIOGRAFIA:

  • Jung C. G., “Ricordi, sogni, riflessioni”, raccolti ed editi da Aniela Jaffè, edizione riveduta e accresciuta, BUR, Milano, 1978.
    •  Salza F., “La tentazione estetica”, Borla, Roma, 1987.
    •  Vallino Marialuisa, “L’estetica di C.G.Jung”, Tesi di Laurea non pubblicata, Roma, 1989.
Il mostruoso nell’arte: l’oscura espressione dell’anima

Il mostruoso nell’arte: l’oscura espressione dell’anima

Trittico del giardino delle delizie (particolare) - Bosch

Trittico del giardino delle delizie (particolare) – Bosch

Ade, antipodo oscuro di Zeus e di Elio riceve, nei racconti mitologici, l’appellativo di Plutos (il ricco o colui che dona ricchezze) e di Eubuleus o Eubulos (il buon consigliere).
Ma Ade è conosciuto soprattutto come “colui che chiude la porta”, sicchè la soglia diventa in termini psicologici la linea di confine che separa due tipi di coscienza, quella “diurna” e quella “notturna”, quella egoica e quella immaginale. Entrare ed uscire dagli ‘inferi’ significa simbolicamente acquisire una ‘prospettiva ermetica’, riflettersi in una realtà fluida, cogliere la “sostanza dell’anima”. Ermes, infatti, abitando sulle linee di confine, è messaggero tanto di vita quanto di morte.
A differenza di Eracle, egli è in grado di oltrepassare porte e cancelli senza lotta e senza fatica. Il messaggero degli dei può, a ragione, essere considerato il vero archetipo delle connessioni psichiche, colui che rende possibile l’impiego simultaneo di prospettive differenti. Il poeta, al pari del dio, accetta il confronto con la realtà polimorfa e contraddittoria del suo essere quando, per dirla con Octavio Paz, “scrive le sue oscure verità” (1).
Alcuni poeti approdano alla verità dell’anima solo attraverso una consuetudine col dolore e la solitudine. Sono quelli che conoscono l’inferno e scoprono dentro di sé il volto folle e inafferrabile del Chaos primigenio, dell’ambivalenza. Il linguaggio di questi uomini è un varco tra le fiamme, è esperienza del Limite, conflitto tra bramosia e sacrificio, tra aspirazione all’unità e bisogno di dissoluzione.

Stiamo appollaiati a capofitto Sul ciglio della noia Ci sporgiamo verso la morte sull’estremità di una candela Sondiamo attorno per qualcosa Che ci ha già trovati. (2)

Jim Morrison traccia più volte di sé un ritratto che oscilla tra il sacro e il profano, non esitando a definirsi uno sciamano con l’anima di un pagliaccio, un medicine-man, un poeta, un trascinatore naturale, figure che ricordano i ruoli che il poeta francese Arthur Rimbaud elenca in Enfance IV:

Io sono il santo…
Io sono il sapiente…
Io sono il viandante della strada maestra…(3)

Se esistesse un solo termine in grado di compendiare la pluralità di epiteti e ruoli dei due poeti, accomunati dalla vocazione agli eccessi, questo sarebbe probabilmente “profeta” proprio per la capacità di attingere alle qualità infere della vita, senza dover scardinare porte e cancelli né dover catturare animali-guardiani della soglia.
Per i “viandanti dell’anima” il dolore e la malattia non sono entità separate dalla vita, ma sono parte di essa, anzi la nutrono.
In alcuni casi il cosiddetto Male è una marea incessante di immagini che invade l’Io, incitandolo ad assumere una forma: sogno e sintomo sono entrambi espressione di una realtà troppo spesso abolita e sacrificata, sicchè l’universo inconscio che attraverso essi si manifesta, finisce col sacralizzare proprio le cose che la coscienza si impegna a scartare.
Il disfacimento, il vuoto, la tenebra sono forme della realtà psichica che avvertiamo come processo di sottrazione alla solidità dell’Io. L’aspirazione all’unità passa inevitabilmente per l’invisibile Ade. Lo sanno i fabbri degli inferi, gli artisti, i visionari…
Per loro, come per chiunque sia immerso in un’esperienza introversiva, il contatto con l’immagine interna è bisogno imperioso. Per gli altri è paura e desiderio, repulsione e attrazione.
L’Io che visita il Regno notturno di Ade o il lettore davanti alla pagina di un racconto fantastico, compie un “viaggio iniziatico” che prelude al contatto con il fondo dell’anima. A volte l’immersione nel mondo immaginale non può darsi se non attraverso meccanismi di identificazione o di proiezione.
Una creatura terrificante, di proporzioni gigantesche, con un’escrescenza posta all’estremità di una proboscide a forma di cuneo, lunga una ventina di metri e circondata da un’immensa quantità di peli neri da cui sporgono due zanne infinitamente grandi. Due coppie di ali lunghe un centinaio di metri, ricoperte di spesse scaglie metalliche completano la figura, che reca sul petto l’effigie di una Testa di Morto, tracciata in uno scintillante color bianco sul fondo nero del corpo…
Improvvisamente le mascelle poste all’estremità della proboscide si spalancano e la creatura emette un suono spaventoso….
Così Edgar Allan Poe (1809-1849) descrive in un suo breve racconto, La sfinge (The sphinx), l’orribile mostro scaturito dai più reconditi recessi della mente.
Sì, il maestro della letteratura del terrore è pronto a svelare le paure ancestrali e le immagini sommerse che danno forma alle sue orribili creature.
E’ uno stato di “anormale depressione”, come si legge nel racconto, il terreno che predispone il narratore a vedere il “mostro” in questione, scaturito da un evento particolare e dal conseguente emergere di fantasie di morte che si legano all’esperienza reale, deformandone i parametri.
Come si scopre alla fine, la fantastica creatura altro non è che un insetto, noto come Sfinge Testa di Morto, arrampicato al filo di una ragnatela sul telaio della finestra…
A mettere fine all’incubo, l’estrema razionalità del padrone di casa. Sollecitato dall’angoscia provata dall’amico di fronte alla visione, lo rassicura chiarendo che “la principale fonte di errori in tutte le valutazioni umane risiede nella difficoltà di comprendere che le dimensioni di un oggetto possono essere sopravvalutate o sottovalutate per una imprecisa stima della distanza a cui si trova”.(4)
Un difetto di valutazione, dunque, che fa apparire mostruoso un piccolo lepidòttèro a chi, provato da alcune circostanze di vita, si trova in una condizione di estrema vulnerabilità emotiva…
Quante volte il mostruoso si insinua tra le maglie oniriche deformandone le immagini e creando scenari da incubo? Quante volte un rumore o un lampo improvvisi possono scatenare l’emergere di terrori mai sopiti?
Quando la mediazione dell’Io è assente o indebolita, il potere dell’inconscio è totale e sopraffacente…
Il mostro di Poe appare nel momento in cui il protagonista del racconto, costretto ad allontanarsi dalla sua città, a causa di un’epidemia di colera, proietta all’esterno la sua paura della morte, fino a quel momento accantonata, sicchè Il piccolo insetto, a causa dei “simboli di morte” incisi sul corsaletto, diviene il veicolo dell’angoscia…
L’esperienza visionaria attinge la sua sostanza dai mondi in ombra, come dimostra l’inquietante messaggio trasposto da Johann Heinrich Füssli (1741-1825) su una sua tela, “Incubo” (fig.1) dove la scelta del tema testimonia il bisogno di esplorare da vicino i campi dell’orrido e del sogno, di oggettivarli attraverso l’arte.

Figura1: J. H. Füssli, "Incubo", 1802

Figura1: J. H. Füssli, “Incubo”, 1802

L’incubo prende generalmente forma in una dimensione dominata dalla malinconia e dalla disperazione e in tale prospettiva, improntata alla vena più pessimista dello Sturm und Drang, Füssli si faceva portavoce dei misteriosi e inquietanti presentimenti sul sovrastare dell’irrazionale.
La scelta figurativa antirazionalistica assume aspetti ancor più radicali in William Blake, non a caso soprannominato “mad Blake”, di poco più giovane di Füssli, che mise a punto la tecnica dell’ illuminated etching, un tutt’uno di figurazione e parola che lo portò ad affermare i valori dell’ispirazione e della visione. Al culto degli scrittori classici l’artista oppose la riscoperta del Medioevo e la rivalutazione del gotico.
Il Bene era per lui “il passivo che obbedisce alla ragione”, mentre il Male era “l’attivo che scaturisce dall’Energia”, un pensiero non dissimile da quello contenuto in alcuni frammenti eraclitei. Sia nei versi che nella pittura Blake infuse il suo impulso visionario, raggiungendo effetti di grande suggestione.
Visioni e immagini della realtà o meglio dell’irrealtà onirica e allucinatoria diventano scenari apocalittici nell’opera di John Martin (1789-1854) intitolata “Pandemonium”, dove un’ardente marea di esseri diabolici scorre a mo’ di lava incandescente tra le mura di una città infernale, sotto lo sguardo del maligno.
Le incursioni nel terrore non sono estranee neanche al belga Antoine Wiertz (1806-1865), noto al grande pubblico per l’opera “La belle Rosine”, e ossessionato per tutta la vita da macabre visioni che davano corpo ad opere raffiguranti esseri sepolti vivi, scene di infanticidio e suicidio, che sembrano tracciare i contorni precisi e puntualissimi del disagio mentale.

Figura 2: A. Wiertz, "Fame, follia, crimine", 1853

Figura 2: A. Wiertz, “Fame, follia, crimine”, 1853

L’orrore nell’arte si pone a volte come esigenza di dialogo con se stessi, di confronto con i propri fantasmi, e questo spiegherebbe l’emergere di tematiche violente, arcaiche, mostruose, visionarie.
Nel racconto di Poe si legge, come abbiamo visto, che “la principale fonte di errori in tutte le valutazioni umane risiede nella difficoltà di comprendere che le dimensioni di un oggetto possono essere sopravvalutate o sottovalutate per una imprecisa stima della distanza a cui si trova”.
Il mostruoso, quindi nascerebbe da un’esasperazione della realtà, da una vicinanza estrema col simbolo che un oggetto racchiude al suo interno. L’etimo di “mostro” ci rimanda a “prodigio” e sul piano sacro il mostro svolge essenzialmente la funzione di guardiano del segreto, della conoscenza e del tesoro, assumendo un valore iniziatico.
L’irruzione del mostruoso, nella letteratura come nelle arti visive, rappresenta un pericolo, una minaccia per l’integrità dell’Io, ma anche una sfida al cambiamento, un’inversione di rotta in direzione dell’interno, quel luogo sepolto e incontrollabile della nostra esistenza che reca il sinistro marchio di Ade.
Ciascun sogno, come osserva James Hillman, “è un tirocinio ad entrare nel mondo infero, una preparazione della psiche alla morte” (5).
Il sonno ci pone in continuo contatto con i “morti”, gli eidola, le immagini, lo stesso materiale che affiora nella pittura fantastica e visionaria.
In molti artisti la creazione passa per chthon, il mondo infero della notte, dei sogni, degli spettri, dell’immutabile essenza della personalità.
Mentre siamo fuori, nei verdi campi di Demetra, nella solida sostanza del nostro “mondo diurno”, una parte di noi scivola, some Kore, nel carro di Ade, e un altro mondo si spalanca.
E’ lo stesso regno che troviamo nelle opere di Arnold Böcklin (1827-1901), dove l’essenza paurosa e oscura della realtà viene raffigurata anche con l’introduzione di figure e scenari mitologici, come per esempio in “Pan spaventa i pastori” e ne “L’isola dei morti”(fig.3).

Figura 3: Arnold Böcklin, “L'isola dei morti”, seconda versione, giugno 1880

Figura 3: Arnold Böcklin, “L’isola dei morti”, seconda versione, giugno 1880

L’isola dei morti, motivo mitologico e onirico ricorrente, è terra circondata da acqua e riproduce l’esperienza primordiale, lo spazio intrauterino.
Nei dipinti come nei sogni essa è il luogo che meglio si presta a rappresentare il rientro in se stessi, l’interiorizzazione necessaria all’evoluzione psichica. Nel suo aspetto positivo l’isola evoca la salvezza spirituale, la presa di coscienza che passa attraverso il confronto con la morte. Nel suo aspetto negativo essa diventa il simbolo dell’isolamento e dell’esclusione, rappresentando il dramma dell’uomo prigioniero dell’angoscia e del terrore, della solitudine e della disperazione .
Tema particolarmente caro all’arte, la raffigurazione del dramma psichico è un tentativo di rendere corporeo quel mondo oscuro e carico di presagi che si muove dietro le quinte di ogni apparenza umana, quel dramma segreto che Edvard Munch (1863-1944) traspose nelle sue opere.

Figura 4: E. Munch, “L’urlo”, 1893

Figura 4: E. Munch, “L’urlo”, 1893

Uno dei pilastri della nascita dell’Espressionismo, “L’urlo” o “Il grido”, del 1893, replicato in diverse versioni, rappresenta una figura molto stilizzata che attraversa un ponte con una ringhiera. Il cielo è color tramonto e questa figura, isolata nel suo dolore, stringe il volto tra le mani, emettendo un urlo (da qui il titolo dell’opera) che deforma il suo volto.
Come osserva Federico Zeri (6), “il grido nasce non perché il personaggio abbia di fronte a sé uno spettacolo orribile o raccapricciante, non perché si senta male (l’atteggiamento delle mani dimostra che è un fatto intimo che lo spinge ad urlare), ma nasce proprio dal senso della propria solitudine, della solitudine in cui vive ciascuno di noi. Un senso che viene accentuato dall’ora del tramonto, il senso disperato della incomunicabilità, dell’essere soli in questo mondo che ripete il proprio ciclo di giorni e di notti, di albe e di tramonti, dentro cui c’è un’umanità che si chiede il perché di tutto questo.”
Ambientato in un esterno, quasi a volerne sottolineare il carattere cosmico più che personale, L’urlo racconta l’incubo che minaccia l’individuo dall’interno, scompaginandone l’identità. Tra le personalità più interessanti del panorama artistico ceco d’inizio Novecento rientra Jaroslav Panuška (Hořovice, 1872 – Kochánov, 1958), pittore ed illustratore di notevole talento che si ispirò a saghe e ballate antiche, a leggende del folklore boemo e a figure leggendarie acquatiche, quali il Vodník. Un motivo frequente nelle sue opere è quello dei mostri notturni, in particolare i vampiri, rappresentati con caratteristiche in parte umane, in parte animali, in stretta affinità con le immagini dell’inconscio. Fantasmi personali che si sommano ai fantasmi collettivi, come sembra suggerire anche l’opera di Max Ernst, la personalità più rilevante e visionaria del Surrealismo tedesco, che amplifica in uno spaventoso scenario d’Ombra, gli orrori dell’inconscio personale e gli oscuri presagi della devastazione bellica.
Impregnata di Morte e immobilismo, l’opera di Ernst recupera il carattere metamorfico delle immagini oniriche, che divengono creature, o meglio elementi da riconsegnare a una coscienza pietrificata e inerte. Secondo Jean Dubuffet: “La vera arte è dove nessuno se lo aspetta, dove nessuno ci pensa né pronuncia il suo nome. L’arte è soprattutto visione e la visione, molte volte, non ha nulla in comune con l’intelligenza né con la logica delle idee” (7).
Quanto più la coscienza dell’autore è estranea allo sviluppo della sua opera, tanto più la sua espressività sarà colma di significati simbolici. E qui emerge chiaramente l’importanza che la Psicologia analitica assegna al simbolo sia in ambito psicologico che in ambito artistico: non più segno, mascheramento, “aliquid stat pro aliquo”, bensì ponte verso una riva invisibile, sconosciuta…
L’ispirazione artistica nasce da una percezione inquieta, profondamente dolorosa della vita, rappresentando, più che una fuga dal reale, una “partecipazione mistica” a quanto esplorato nel profondo. In questa prospettiva il mostruoso si connette inevitabilmente al sacro.
Fortemente influenzato dalle proprie radici culturali haitiane, Jean-Michel Basquiat dialoga ininterrottamente con la dimensione religiosa e animista, attraverso immagini simboliche e arcaiche, adoperate nei termini di “nuovo” primitivismo. Non mancano, nell’attività convulsa dell’artista, i riferimenti alla mitologia greca o romana. In un’opera del 1983, Notary (fig.5), compare ripetutamente la scritta “Pluto”, un riferimento al signore degli inferi (Ade-Plutone), nella sua funzione di dispensatore di ricchezze. Ma il dipinto allude anche alla morte, come sembra indicare la figura scheletrica, e alle sue cause: disidratazione, perdita di energie (dehydrated). Inoltre i rimandi a sanguisughe (leeches) e pulci (fleas) concorrono nel delineare un’autoritratto poliedrico dove emerge inequivocabilmente l’aspetto ctonio.
Le rare immagini femminili di Basquiat (es: Untitled, Venus, 1983 e Arroz con pollo, 1981) ricordano le “Veneri paleolitiche”, mostruose, della preistoria, con forme deformate o irrealisticamente esagerate, reificazioni della Genetrix vitae, la Grande Dea creatrice connessa ai cicli di Vita-Morte-Rinascita. Nelle opere di Basquiat, tuttavia, il femminile sembra emergere nei suoi aspetti minacciosi più che fecondi, lasciando intendere che il confronto con l’Archetipo dell’Anima, sia inesorabilmente connesso a quello della “Madre terribile”, divorante o artigliata.

Figura 5: J-M. Basquiat, "Notary", 1983

Figura 5: J-M. Basquiat, “Notary”, 1983

Il mostruoso nell’arte si estende anche oltre i confini dell’identità, del limite umano. Se nella mitologia la trasformazione degli esseri umani era mediata e imposta dal volere di un dio ed era funzionale al raggiungimento di uno scopo ben preciso, l’immagine corporea che impera nelle arti visive è suscettibile di infinite metamorfosi che sconfinano nell’assurdo. Sottoposto alle infinite manipolazioni scientifiche, che tentano di eternizzarne forma e contenuto, il corpo è il vero mostro-prodigio che riflette nell’arte il suo volto mutante.
Sulla strada tracciata da Ernst e Dalì, Hans Ruedy Giger (1940), l’inventore di Alien , in fig.6, accoglie all’interno della sua opera, ancora in pieno svolgimento, una concezione del corpo che muta col progredire della tecnologia.
Le creature gigeriane, veri mostri biomeccanoidi, attingono la loro essenza “vitale” da reminiscenze lovecraftiane, ma non mancano i riferimenti a Dürer e Bosch nel sovvertire i parametri dell’identità corporea. Mostruosi ibridi, commistione tra organico e inorganico, che recano il segno prodigioso del computer graphico e dell’aerografo, invadono la realtà, connotandola nei termini di un regno permeato di Morte. Lo sguardo dei fruitori dell’opera di Giger penetra oltre la pelle, oltre la linea di confine, inoltrandosi nel nucleo delle nostre cellule. Embrioni ammassati, porzioni anatomiche, voragini abissali, scheletri, “paesaggi ginecologici”, ri-disegnano metaforicamente il ciclo Vita-Morte-Rinascita, riconsegnandoci alla nostra esistenza pre-natale o al nostro cervello “rettilario”, in attesa di una trasformazione.

Figura 6: H.R. Giger

Figura 6: H.R. Giger

Come Giger anche Robert Gligorov (1960) usa nelle sue opere, per lo più immagini fotografiche estreme e sofisticate, il “corpo mutante”, sottoposto a fantastiche ibridazioni, dove risulta difficile tracciare una linea di demarcazione tra umano e non umano, organico e non organico (fig.7).
“Utilizzato come strumento per mettere in discussione la propria identità, per forzare i propri limiti e non solo come rispecchiamento di sé, l’autoritratto è un motivo ricorrente nel lavoro di Gligorov. E’ quasi sempre l’artista, infatti, a comparire nelle sue immagini, soprattutto nelle più disturbanti, come quella della sequenza dove indossa una giacca di carne lasciata progressivamente imputridire…” (8)

Figura 7: R. Gligorov, "Venus' Birth", 2001

Figura 7: R. Gligorov, “Venus’ Birth”, 2001

Ecco dunque l’umano che si aliena da se stesso, partorendo il mostro della disidentità.
Pur nella estrema diversità dei linguaggi espressivi, l’arte si accosta oggi come sempre al multiforme universo psichico. Dai contrasti di Amore e Morte al desiderio di cogliere ciò che si situa al di là dell’apparenza, l’occhio dell’artista riesce a penetrare l’essenza deformata dell’Ombra umana, a definire i contorni dell’incubo, della disperazione, della perdita dell’identità, conferendo loro il potere della trasformazione e dell’integrazione.
E’ probabile che il mostro, una volta rappresentato, cessi di essere un essere terrifico per trasformarsi in un prodigioso evento trasformativo…

Marialuisa Vallino

Note :
1. Octavio Paz, “Luis Cernuda”, da “Vento cardinale e altre poesie”, Mondadori ed.,1998.
2. Jim Morrison, “An American Prayer”, in “Tempesta elettrica”, Mondadori ed., 2001.
3. Per le Opere di Rimbaud si fa riferimento all’edizione “I Meridiani Collezione” della casa editrice Mondatori, 2006.
4. E. A.Poe, “La sfinge”, in “Racconti dell’impossibile”, Newton Compton editori,1994.
5. James Hillman, “Il Sogno e il Mondo infero”, pag.127, edizioni Est , il Saggiatore,1996.
6. Federico Zeri, “Un velo di silenzio”, a cura di M. Dolcetta, pag.198, seconda ed. Rizzoli, 2000.
7. Citato in Lorenza Trucchi, “Art brut”, ERI – Edizioni Rai Radiotelevisione Italiana, Torino 1964.
8. Luca Beatrice, Cristiana Perrella, “Nuova Arte italiana”, pag.147, ed. Castelvecchi,1998.

Artemisia Gentileschi: l’opera pittorica di una donna violata

Artemisia Gentileschi: l’opera pittorica di una donna violata

A. Gentileschi, "Autoritratto come allegoria della Pittura", 1638-39

A. Gentileschi, “Autoritratto come allegoria della Pittura”, 1638-39

A titolo puramente introduttivo del presente articolo è opportuno soffermarsi sul concetto di violenza sessuale, perché l’argomento che affronteremo è stato oggetto di controversie negli ambienti artistici, come dimostrano le varie interpretazioni letterarie e cinematografiche della vicenda di Artemisia Gentileschi.
Di recente, la Corte di Cassazione  ha ribadito il proprio consolidato orientamento in tema di reati sessuali, affermando che (1):
“Il consenso al rapporto sessuale deve essere pacifico e ininterrotto, trattandosi di una sfera soggettiva in cui sono tutelati, nella loro massima ampiezza, la dignità e la libertà, sia fisica che psichica della persona. Infatti in tema di libertà sessuale non è necessario che il dissenso della vittima si manifesti per tutto il periodo di esecuzione del delitto, essendo sufficiente che si estrinsechi all’inizio della condotta antigiuridica; conseguentemente l’imputato non può invocare a sua giustificazione di avere agito in presenza di un consenso dell’avente diritto, quando vi è stata la tempestiva reazione della vittima. Un consenso agli atti sessuali deve perdurare nel corso dell’intero rapporto senza soluzione di continuità, con la conseguenza che integra il reato di cui all’art. 609 bis c.p. la prosecuzione di un rapporto nel caso in cui il consenso originariamente prestato venga poi meno a seguito di un ripensamento o della non condivisione delle forme o modalità di consumazione dell’amplesso”.
La vicenda personale di Artemisia Gentileschi si situa proprio nella dibattuta area di confine tra consenso e dissenso all’espletamento del rapporto sessuale con persona conosciuta.
Ma chi è Artemisia?
Artemisia Gentileschi è stata definita un’icona del femminismo moderno, ma forse sarebbe più corretto ritenerla una singolare espressione di eroismo femminile, che prende forma da un processo di autonomizzazione dal collettivo. Ma è, soprattutto, una grande artista, una tra le prime pittrici e senz’altro la più originale dell’epoca (XVII secolo), “L’unica donna in italia”, a detta di Roberto Longhi , “che abbia mai saputo cosa sia la pittura” (2).
E infatti, anche coloro che la reputano una “minore” le riconoscono una capacità del tutto peculiare: In Artemisia vi è la scoperta di una grande novità ovvero la dimensione dell’alterità pittorica, un differente modo di rappresentare e di vedere la realtà, fino a quel momento caratterizzata al maschile; un modo espressivo “di genere”, antichissimo, eppure del tutto nuovo, perché fino a lei lasciato nel silenzio. Ed è parte personale della difficile vita di Artemisia, il suo processo, un contrappasso quasi obbligato…
Lei, che per prima ha dipinto volti femminili autentici, strappati alle iconiche interpretazioni maschili, divenendo pura interprete del femminino, viene degradata ad un mero oggetto sessuale.
Esiste, quale appendice sacrilega alla sua vita, il tentativo di raccontare la tormentata vicenda processuale, in modo fantasioso e difforme dai documenti, trasformando una sordida vicenda di stupro in una improbabile storia d’amore preromantica, ma non è infrequente per le “icone” essere sottoposte ad operazioni di deformazione.
Proprio per questo, nella narrazione della vicenda personale dell’artista è necessario mantenere il contatto con i documenti originali, nella convinzione che le grandi personalità non meritino definizioni “sacrileghe” né richiedano “ritratti” celebrativi. Lo sfondo storico è quello che meglio consente di contestualizzare la grandezza di Artemisia perché è lì che emerge il suo coraggio, reso esemplare proprio dal suo status di donna del ‘600: una donna stuprata che può ottenere parziale giustizia solo affrontando un processo infamante ed essendo sottoposta lei, la vittima, ad una dolorosa tortura mentale e fisica. L’interessante documento giuridico (3) ci consente di esplorare come veniva istruito e come si svolgeva in quegli anni un processo: l’uso della tortura, la manifestata volontà da parte degli accusati di proteggere tanto i propri misfatti quanto la propria Ombra nefasta, scaturita, ieri come oggi, da un’identità inintegrata, escludente il carico del confronto con l’altro da sé.
“Ieri in Pretura” potrebbe intitolarsi altrimenti il presente articolo, ma purtroppo scopriamo, con preoccupazione, che i pregiudizi che afflissero gli anni di Artemisia sono ancora oggi vivi, magari inespressi, non più dichiarati e tuttavia presenti nell’inconscio.
Artemisia Gentileschi (4) nacque a Roma l’8 luglio del 1593, da Orazio, pittore pisano dagli iniziali stilemi tardo-manieristi, trapiantato a Roma, e da Prudenzia Montone, che morì quando Artemisia era bambina.
Il padre, in seguito considerato uno dei migliori pittori della cerchia del Caravaggio, totalmente “rapito” dal suo furore espressivo era spesso assente dalle responsabilità della conduzione familiare, affidata essenzialmente alla moglie.
Artemisia fu iniziata precocemente all’attività pittorica e in tal senso la sua formazione iniziò proprio col padre, nella sua bottega in via Margutta: “Dall’età di cinque anni, Artemisia riduceva in polvere i pigmenti, preparava le tele, confezionava le vernici. Con lui la piccola faceva un apprendistato che tutti i suoi allievi avrebbero potuto invidiarle. Francesco, il fratellino, non riusciva a starle dietro. Lei sembrava sempre più svelta, più diligente, più dotata degli altri. Però era femmina. E presto o tardi sarebbe stato necessario separarsene, offrendola a Dio o a un marito. Una femmina che dopo i funerali della madre si ritrovava senza dote, in miseria e nella solitudine”. (5)
Sappiamo che Artemisia iniziò giovanissima le sue prime prove di pittura, incoraggiata e seguita dal padre, che probabilmente vedeva in lei la rivelazione delle proprie abilità di maestro più che di genitore.
Orazio, dopo aver scoperto l’enorme talento della figlia, decise di affidarla all’abilità artistica di Agostino Tassi, un virtuoso della prospettiva in trompe-l’œil, scenografo e pittore, con il quale stava lavorando alla loggetta del cardinale Borghese. Fu così che Agostino entrò nella vita dei Gentileschi, cominciando a frequentare la loro casa, in via della Croce. Violento, truffaldino, invischiato in un numero imprecisato di procedimenti penali, incarcerato ed esiliato più volte, libertino, mandante di diversi omicidi tra cui (pare) anche quello della moglie, debitore incallito, dal quale pretendere un pagamento poteva essere un’impresa rischiosa.
E poi, la più infamante delle accuse per un pittore, quella di aver usato la sua attiva bottega anche come fucina di falsi, confezionati da lui stesso o dai suoi garzoni. Un delinquente, insomma, che però per anni fu una vera e propria stella del firmamento artistico della fine del ‘500 e della prima metà del ‘600. A lui si rivolsero papi e cardinali per affrescare le stanze dei palazzi più prestigiosi della Città Eterna.
La moglie, Maria Cannodoli, era stata stuprata da lui e successivamente sposata. La donna lo lasciò a causa della sua infedeltà, preferendogli un mercante di Lucca. Agostino Tassi era stato infatti l’amante di Costanza, sorella minore di Maria, che aveva accolto in casa come figlia, da che era rimasta orfana. Resosi responsabile della gravidanza della giovane cognata, all’epoca quattordicenne, Agostino aveva indotto un suo allievo, Filippo Franchini, a sposarla, dietro ricompensa di una dote cospicua.
Il legame tra Agostino e Costanza non finì e il pittore visse addirittura in casa Franchini un menage a trois. L’ossessione di Tassi era l’impiccagione, perché egli sapeva che giacere con la sorella della moglie era l’equivalente di un incesto: Roma puniva quel crimine con la morte; se ne faceva carico Paolo V, Camillo Borghese. Agostino fu infatti accusato dalla sorella Olimpia di adulterio e incesto con la cognata, e processato.
Protagonista di più di un processo, il Tassi si accese di passione per Artemisia, che nel frattempo diventava una donna di particolare bellezza e un’artista eccellente. Agostino aveva già sentito parlare della giovane Gentileschi e quando la conobbe iniziò a corteggiarla. Artemisia, pur non essendo indifferente al fascino di quell’artista “maledetto”, dai burrascosi trascorsi, di cui aveva sentito parlare dal padre Orazio, si sottrasse alle insistenti richieste d’intimità di Agostino.
Il 9 Maggio del 1611 l’abusiva protervia maschile del Tassi violò il giovane corpo di Artemisia, fossilizzando, in quell’adolescenza già tormentata per la prematura perdita materna, l’impronta ulteriore di un vissuto doloroso ed ingombrante. Tassi, già suo insegnante di prospettiva e personaggio fin troppo compromesso da una visione fallocentrica ed erotomane, orientata alla funzionalità oggettivata e sessualmente strumentale del corpo femminile (risultando già precedentemente coinvolto in numerosi processi per stupro, atti di libidine violenta e incestuosa), segnò non solo la vita personale dell’avvenente fanciulla, ma anche il suo iter artistico, che recò per sempre la traccia della violenza subita.
Un anno dopo lo stupro, Orazio Gentileschi scrisse una lettera di supplica al papa Paolo V, affinchè venisse istruito il processo contro Agostino Tassi. Nella lettera si fa riferimento anche al furto di un non meglio identificato quadro: “Iuditta, di capace grandezza”. La Garrard (6) ha ipotizzato che il quadro oggetto della disputa fosse la prima raffigurazione del soggetto di Giuditta da parte di Artemisia.
Probabilmente più che la volontà di giustizia fu la rivalità fra artisti e il mancato rispetto della promessa matrimoniale avanzata dal Tassi a spingere il Gentileschi a chiedere al Papa di procedere contro il pittore, il quale aveva “forzatamente sverginata e carnalmente conosciuta più e più volte” la figlia.
Artemisia, un mese dopo il processo, nel novembre 1612, sposò Pietro Antonio Stiattesi, lasciando Roma per Firenze. Abbandonare Roma fu una scelta dolorosa, ma necessaria: l’artista si allontanava da un passato tormentato e da un padre ingombrante, di cui ben presto avrebbe rinnegato il cognome, preferendogli quello dello zio, Lomi.
La Città dei papi era ormai impraticabile per lei, come donna, della quale si sottolineavano continuamente le caratteristiche di licenziosità sessuale.
L’iter probatorio culminò nella drammatica tortura delle “sibille” (cordicelle strette attorno alle dita), inflitta dagli inquisitori ad Artemisia per accertare, secondo la significativa mentalità giurisprudenziale dell’epoca, l’attendibilità della ragazza.
Il reato di stupro veniva in quei tempi considerato e punito secondo i criteri dell’integrità socio-morale più che della dignità della persona e la giovane poteva ricevere giustizia solo se, attraverso procedure “discutibili”, veniva dimostrata l’avvenuta deflorazione, segno tangibile della perdita dell’onore.
Il processo, che durò dal marzo all’ottobre del 1612, vide sfilare un numero infinito di testimoni che pare facessero a gara per mentire. Artemisia e Agostino continuarono a ribadire gli stessi argomenti: lei sostenendo di essere stata ingannata e violentata, lui dicendo che lei mentiva e che era da tutti risaputo che era “donna di malaffare”. Agostino fu condannato, ma non scontò mai la pena né si allontanò da Roma.
Gli atti del processo illustrano non solo la condotta dell’accusato, che coerentemente con i suoi tratti di personalità, mistificò le circostanze dell’accaduto, ma anche i metodi utilizzati per l’accertamento della verità nei confronti della vittima.
Dopo la dolorosa vicenda personale, Artemisia, retta da una dignità esemplare per una donna dell’epoca, cominciò a rielaborare in maniera originale lo stupro subito, che ovviamente fu solo moderatamente attribuito alla violenza del Tassi, dal momento che i più si chiedevano se non fosse stata consenziente ai ripetuti atti sessuali.
Forse Artemisia era realmente innamorata di Agostino, e questo spiegherebbe le allusioni alla sua capigliatura corvina, presenti in alcuni celebri quadri, di epoca precedente al misfatto. Ma basta il sentimento della vittima per decidere delle modalità di consumazione dell’amplesso, della liceità di un atto? Sono interrogativi questi che investono l’area della vittimologia, ma soprattutto la sfera degli affetti privati, che non può mai prescindere dal rispetto altrui.
La pittrice rielaborò personalmente il suo rapporto col maschile, come si evince da due dei suoi più celebri quadri: Susanna e i vecchioni (1610), collezione Schönborn, Pommersfelden (Fig.1) e Giuditta che decapita Oloferne (1620 ?), Uffizi, Firenze (Fig.2)  dove la figurazione narrativa riflette i tratti di un percorso autobiografico.

Fig.1: "Susanna e i Vecchioni"

Fig.1: “Susanna e i Vecchioni”

Fig.2: "Giuditta che decapita Oloferne"

Fig.2: “Giuditta che decapita Oloferne”

In particolare, si osserva l’esplicarsi di un rovesciamento simbolico: Susanna e i vecchioni, infatti, esplicita il reattivo segnale difensivo della fanciulla dall’avvertita minaccia incombente da parte della coppia maschile, mentre le modalità della morte di Oloferne inscenano l’idea di un vendicativo rito sacrificale compiuto da due donne, secondo una sanguinosa liturgia rappresentativa che emula uno stupro, stavolta di oggetto maschile, realizzando così, nel ritmo compulsivo dell’atto omicida, una risposta figurativa altrettanto violenta di quella precedentemente subita.
Non appare dunque casuale l’allontanamento di Artemisia dal racconto della tradizione biblica, che non menziona la figura attiva della fantesca all’esecuzione del generale assiro, quasi a proporre una contingente necessità di alleanza femminile per condurre a termine un inevitabile “proposito di genere”, in una situazione che potrebbe essere definita come l’esigenza di annullare la violenza subita mediante un rovesciamento di prospettiva, dal significato catartico.
“Il colpo di genio è quello di aver messo nel quadro due donne (…) che riuniscono i loro sforzi muscolari sullo stesso oggetto: vincere una massa enorme, il cui peso supera le forze di una sola donna” (7). La complicità tra donne, tema ricorrente nell’opera della pittrice, serviva forse a compensare il dolore di un’amicizia tradita, quella per Tuzia, vicina di casa, amica e modella, che durante il processo fu sospettata di favoreggiamento. Se è vero che in “Susanna e i vecchioni” viene documentato l’apprendistato degli insegnamenti di Orazio, per la particolare modulazione di luce ed ombra e per il rigore del disegno anatomico, la postura dei personaggi è un evidente richiamo al Michelangelo della Cappella Sistina (Peccato Originale e Cacciata dal Paradiso terrestre, 1509-1511), anche se la particolare configurazione del femminile lascia intravvedere un vigore espressivo personalissimo, che erompe dalla sfera affettiva. Dal sentire al creare il passo è breve: ogni lavoro creativo si fonda sul presupposto di un coinvolgimento intenso, un’esperienza “sensoriale” che lega il soggetto all’oggetto che andrà a rappresentare. Se poi l’impulso creativo si inserisce in un percorso di rielaborazione personale, come in “Giuditta che decapita Oloferne” è possibile che elementi individuali si sommino ad elementi archetipici, conferendo all’opera un’intensità simbolica universale. Alla base della trasformazione c’è la solitudine che questo processo apre. In solitudine è possibile ‘ascoltare’ l’immaginazione, prestare il tratto alla funzione mitopoietica della psiche.  La vera ‘cura’ è un incantesimo che si realizza quando la dedizione dell’artista all’immaginale, innesca una ‘risposta estetica’ necessaria al risveglio della realtà psichica.
Il vero colpo di genio di Artemisia, forse, consiste nell’aver attinto ad una forza interiore fino a quel momento rimasta inespressa, a causa della supina accettazione di regole e condizionamenti provenienti dall’ambito paterno, che avevano limitato gli orizzonti della sua espressività.
Dalla vicenda dello stupro in poi emerse a viva forza l’esigenza di un’autonomia artistica quanto personale. La stessa autonomia che la indusse a distanziarsi affettivamente dal marito che non amava, per dedicarsi alla coltivazione di se stessa e della sua arte sublime.…

Marialuisa Vallino

Note:

1. Corte di Cassazione – Sezione III penale, Sentenza 29 gennaio 2008, n.4532: Violenza sessuale- Consenso della vittima; inoltre, “Il consenso della vittima agli atti sessuali deve perdurare nel corso dell’intero rapporto senza soluzione di continuità”. Così, Corte di Cassazione – Sezione III penale – Sentenza 3 aprile 2013 n. 15334.

2. R. Longhi, “Gentileschi padre e figlia”, in: L’Arte, n.19, 1916.

3-4. Le notizie biografiche riguardanti Artemisia sono tratte da più fonti, tra cui: A. Lapierre, “Artemisia”, Oscar Mondadori, 2000 e Artemisia Gentileschi, “Lettere, precedute da Atti di un processo per stupro”, a cura di E. Menzio, Abscondita ed., 2004.

5. A. Lapierre, “Artemisia”, op. cit, pag.38.

6.Mary D. Garrard, Artemisia Gentileschi The Image of the Female Hero in Italian Baroque Art, 1991.

7.Roland Barthes, Nota su “Giuditta e Oloferne”, in: Artemisia Gentileschi, “Lettere…”, op.cit. pag.150.